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domenica 27 febbraio 2011

Libia: rischio propaganda sulla verità

(Il Giornale) - Ma quanti sono i morti in Libia? Mille, duemila o diecimila? E quante città sono cadute in mano ai rivoltosi? Due, tre, dieci? La crisi libica è densa di notizie tanto sensazionali e sconvolgenti quanto di dubbia attendibilità. Siamo tutti inorriditi apprendendo che Gheddafi avrebbe ordinato all'aviazione di bombardare la folla, circostanza che però il vescovo di Tunisi non conferma, al pari di altri testimoni. Le comunicazioni telefoniche dalla Libia sono difficilissime e quelle online interrotte; però ogni giorno sbucano filmati drammatici pro o contro il regime. Abbiamo visto quello sulle fosse comuni, che però tanto comuni non sembravano. Erano, piuttosto, sedici buche nel terreno come quelle che vengono scavate in ogni cimitero. La tv di Tripoli, invece, trasmette le immagini di migliaia di libici esultanti in piazza per dimostrare che il Colonnello è amato e ancora saldamente al potere. Chi mente? Inutile, chiederselo, mentono tutti. Come in ogni crisi. I filmati con cadaveri o distruzioni possono essere riferiti a fatti avvenuti anni fa o in altri Paesi e basta stringere il campo dell'obbiettivo per far sembrare poche decine di persone in piazza una folla quasi oceanica.
Ricordate il Cormorano nero della prima guerra del Golfo, simbolo della spietatezza di Saddam che - ci dissero allora - aveva aperto gli oleodotti? Era un falso. E la strage di Timisoara in Romania in occasione della rivolta contro Ceausescu? Mai esistita. Ai tempi dell'ultima guerra in Irak, i media diffusero una quantità gigantesca di frottole, di cui però nessuno si accorse in tempo reale. Anzi, quasi nessuno. Le poche voci dubbiose di solito finiscono travolte dall'impeto delle breaking news, dalle notizie dell'ultima ora e dunque da una concitazione travolgente. Impressionare o stordire. Trascinare o deprimere. Esaltare o impaurire. Quel che conta è l'effetto immediato. Le guerre moderne si vincono anche, anzi soprattutto, sui media.
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(Il Giornale) - Lo storico Angelo Del Boca profondo conoscitore del Paese «Quella spiaggia è un vecchio cimitero. E dove sono i corpi?»
«Fosse comuni? Diecimila morti? Cinquantamila feriti? Bum!» Angelo Del Boca, 85 anni, borbotta incredulo al telefono. Scrittore, partigiano, storico, «biografo» di Gheddafi (ci ha fatto un libro di 400 pagine) Del Boca fu il primo a denunciare le atrocità compiute dalle truppe italiane in Libia quando su quello «scatolone di sabbia» sventolava il tricolore.
Niente fosse comuni, dunque.
«Ma no, ma no. Le immagini che tutti abbiamo visto sono quelle del cimitero di Asiah, a ovest, là dove finisce la città. É una zona che conosco bene, come tutta Tripoli, del resto. Ma poi, a ben pensare, che cosa abbiamo visto? Dei buchi, delle fosse; e delle persone che ci stavano accanto. E i corpi? I cadaveri? Chi li ha visti quelli?».
Eppure il bilancio è bell'e che fatto. Diecimila morti, cinquantamila feriti... Tutta propaganda?
«Certamente chi ha messo in giro queste cifre punta a rendere peggiore l'immagine di Gheddafi. E Dio sa se ce n'è bisogno. Ma ci rendiamo conto di quel che vuol dire cinquantamila feriti? Non basterebbero tutti gli ospedali del nord Africa. Son balle, creda. Io ho tre testimoni oculari di cui mi fido. Persone indipendenti, serie, come l'avvocato Anwar Fekini, laureato alla Sorbona, nipote di quel Mohammed Fekini che fu capo della resistenza in Tripolitania dal 1911 al 1931. Bene. Fekini parla di mille, duemila morti».
Che fine farà il colonnello Gheddafi?
«Mah. Fino all'ultimo ho sperato che uscisse di scena come il tunisino Ben Ali, come Mubarak, con la sua corte e il suo bottino. Ma Gheddafi non è un vigliacco. É un criminale, ma ha una sua corrusca grandezza».
Un personaggio shakespeariano...
«Proprio così. Un uomo di grande intelligenza, colto. Sì, mi spiace che il colonnello abbia spinto la sua avventura umana verso un finale così catastrofico. É in un vicolo cieco. Ma non si arrenderà. Si farà ammazzare».
La sua imbarazzante megalomania, gli occhiali da diva, le amazzoni, il guardaroba che oscurava quello di Michael Jackson finiranno per far dimenticare i meriti dell'uomo.
«Che pure ci sono. La Libia era un'aggregazione di 130 clan. Fu lui a farne una nazione, cacciando gli americani e gli inglesi, e da ultimo gli italiani».
Poi la convinzione di essere appena un gradino sotto il Padreterno lo travolse. Come Saddam Hussein.
Due destini speculari.
«Come il rais di Bagdad, anche Gheddafi sognava di diventare il Califfo, il gran capo di tutti gli arabi. É un sogno che ha coltivato a lungo, finchè nel 2000 si rese conto che non era realizzabile».
Fu allora che si inventò l'Unione Africana.
«Chiamò a raccolta 54 capi di stato e di governo, si fece nominare "re dei re", come il Negus. Certi eccessi, nelle posture e nell'abbigliamento, erano diretti a quel pubblico».
Che vuole il leader rutilante, irraggiungibile, una specie di visione onirica in technicolor.
«Gheddafi pensava a una politica estera, a un'economia, a un esercito in comune. Un criminale, ripeto. Un criminale che negli anni Sessanta e Settanta mandava i suoi sicari in giro per l'Europa a eliminare i suoi nemici. Ma non uno sciocco, creda».
Lei gli ha parlato più volte. Che cosa pensava del suo mitico libro verde, l'Illuminismo in salsa islamica?
«Gli feci la domanda. Mi rispose a bruciapelo. "Onestamente - disse - è stato un fallimento. La Libia è un paese nero, fosco, niente affatto verde"».

sabato 26 febbraio 2011

La Commissione Europea e Trichet si rifiutano di fermare la speculazione

(MoviSol) - Con i prezzi delle derrate alimentari di base alle stelle in tutto il mondo, per la mancanza di scorte e per la speculazione incontrollata, Lyndon LaRouche ha ribadito il 14 febbraio il suo appello per mettere un tetto ai prezzi del cibo. Il processo iperinflazionistico sta spingendo il denaro speculativo verso i mercati delle commodities, e ne deriva tale esplosione dei prezzi. E questo in un momento in cui, stando alla Banca Mondiale, quasi un miliardo di persone in tutto il mondo, quasi un sesto della popolazione mondiale, patiscono la fame e un altro miliardo è malnutrito. "Abbiamo bisogno di un tetto internazionale ai prezzi del cibo", ha dichiarato LaRouche. "Dobbiamo congelare i prezzi del cibo imponendo subito un tetto! Le situazioni in Egitto e Tunisia sono solo un avvertimento".
L'appello di LaRouche per mettere fine alla speculazione sul cibo era stato echeggiato negli ultimi due anni dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Ora sembra che si stiano svegliando anche i suoi colleghi europei. Un avvertimento simile è giunto dal ministro tedesco dell'Agricoltura, Ilse Aigner, durante il suo discorso di apertura alla fiera agricola annuale a Berlino, il 20 gennaio: le rivolte per il cibo e la destabilizzazione dei paesi del Nord Africa, ha dichiarato, indicano la necessità di regolamentare e proteggere i beni agricoli dagli speculatori. La signora Aigner e i ministri dell'Agricoltura degli altri 26 paesi dell'UE hanno inviato una richiesta alla Commissione Europea affinché appronti tali regole: ma la Commissione si è rifiutata, con l'assurda motivazione che non è la speculazione a causare l'inflazione dei prezzi del cibo!
Tuttavia, la situazione è diventata così drammatica dalla fine di gennaio che la proposta di bandire la speculazione sul cibo è stata messa all'ordine del giorno del G20 iniziato il 18 febbraio a Parigi. Il ministro delle Finanze indonesiano Agus Martowardojo ha dichiarato al G20: "auspichiamo che il forum del G20 eserciti pressioni sui mercati in modo che non ci siano più speculatori, o industrie finanziarie o non finanziarie, che speculano sulle derrate alimentari… A livello del G20, a lungo termine, chiediamo ai paesi di creare un fondo per aumentare la produttività del cibo, ma a breve termine, dobbiamo mandare un messaggio alle industrie finanziarie e non finanziarie che speculano sui prezzi del cibo, così come all'industria dei futures, per fare in modo che non destabilizzino i prezzi".
Il ministro francese dell'Agricoltura Bruno Le Maire ha confermato la necessità di un limite alla speculazione: "Va imposto. È inaccettabile che ci siano persone che creano artificialmente carenze di cibo e si approprino di questa o quella quantità di derrate alimentari al solo scopo di fare dei profitti, mentre milioni di persone patiscono la fame". I governi europei sembra si siano accorti del disastro dei prezzi alimentari provocato dall'uomo, ma non hanno intrapreso alcun passo concreto.
Peggio: Jean-Claude Trichet, che guida il vero governo UE, ha girato i pollici contro. Parlando alla stazione radio francese Europe 1 il 20 febbraio, Trichet ha affermato: "Non possiamo fare niente contro l'aumento attuale dei prezzi dell'energia e delle merci, ma dobbiamo fare di tutto per evitare quelli che chiamiamo gli effetti di ritorno". E quali sarebbero gli effetti di ritorno? "Sto pensando all'intera gamma degli altri prezzi, compresi, naturalmente, i salari". Aumentare i salari "sarebbe la cosa più sciocca da fare", ha affermato brutalmente.
La BCE potrebbe fermare la speculazione in un baleno, basta chiudere il rubinetti del denaro facile. La liquidità costantemente pompata nel sistema si riversa nella speculazione sulle derrate alimentari, come mostrano tutti i diagrammi. L'UE stessa ha pubblicato le seguenti cifre: gli "investimenti" nei mercati delle commodities erano 15 miliardi di dollari nel 2003, essi sono schizzati a 300 miliardi nel 2008 e da allora continuano a salire. Alla borsa mercantile di Chicago, l'85% dei traders non hanno nessuna attività nel settore alimentare.
Persino i grandi produttori suonano il campanello d'allarme: il 16 febbraio, la divisione svizzera di Kraft Foods, il secondo più grande produttore di cibo mondiale, ha emesso un comunicato che denuncia gli hedge funds accusandoli di pompare enormi volumi di capitale nelle derrate alimentari dalla metà del 2007, causando un'inflazione nei prezzi mai vista prima. Ciò minaccia di danneggiare la sicurezza delle forniture alimentari, ha ammonito Kraft Foods, chiedendo una regolamentazione che escluda gli speculatori dai mercati dei prodotti agricoli.

venerdì 25 febbraio 2011

Acqua, Berlino dice "Ripubblicizziamola!"

(Stampalibera.com) - Il referendum popolare di domenica scorsa si è chiuso con una vittoria che ha sfiorato l’unanimità: il 98,2 per cento dei cittadini vuole che la Berliner Wasserbetriebe sia gestita esclusivamente dal Comune

Anche a Berlino l’acqua torna pubblica. A deciderlo una consultazione popolare che ha chiesto ai cittadini della capitale tedesca, domenica 13 febbraio, di dire “sì” o “no” alla proposta di togliere la gestione dell’acqua ai privati.
Se in Italia si deve ancora votare sulla questione della privatizzazione dei servizi idrici, e se in una città come Parigi è già stato deciso da parecchio tempo di renderli nuovamente pubblici, oggi anche Berlino ha deciso che non si possono più associare speculazioni e profitti ad un bene di primaria importanza come l’acqua. I berlinesi hanno infatti votato “sì” al referendum per l’annullamento della privatizzazione parziale della società di gestione dei servizi idrici. Una vittoria a dir poco schiacciante: su oltre 678.000 elettori, il 98,2%, ha votato a favore di un’inversione di marcia, rivendicando anche una maggiore trasparenza dei contratti.
«Un bene essenziale come l’acqua non può essere fonte di profitto, vogliamo che torni in mano pubblica», ha dichiarato il portavoce del Comitato promotore, Thomas Rodek. E così sarà. Quello del referendum berlinese è stato un trionfo dei sì: ne servivano almeno 616.571, e ne sono arrivati 665.713. Andreas Fuchs, il cassiere del comitato referendario, commenta: «Ci speravo, ma non me l’aspettavo più, vista la scarsa affluenza in mattinata». Ed aggiunge: «È la prova che si può fare molto anche con pochi mezzi». Pochi mezzi davvero, dato che il comitato disponeva di soli 12 mila euro per organizzare tutto: soldi ottenuti interamente da donazioni (mentre gli organizzatori del fallito referendum sulla religione a scuola di due anni fa avevano raccolto centinaia di migliaia di euro).
La richiesta riguardava la pubblicazione integrale del contratto con cui nel 1999 la capitale tedesca, cercando di fare cassa, decise di vendere alle società Rwe e Veolia il 49,9% dell’azienda dei servizi idrici comunali, la Berliner Wasserbetriebe. Un contratto di cui solo nel novembre del 2010 i promotori del referendum hanno ottenuto la pubblicazione da parte del municipio berlinese: 700 pagine che illustrano il processo di privatizzazione parziale. Un dossier che mostra come la città abbia garantito alti margini di guadagno alle due imprese interessate, Rwe e Veolia. Che, nell’arco di dieci anni, hanno incassato più utili dell’intera città di Berlino: 1,3 miliardi contro 696 milioni. Ora l’obiettivo del comitato referendario resta quello di riportare completamente la Berliner Wasserbetriebe in mani pubbliche. Evitando possibilmente di replicare quanto successo nella vicina Potsdam, dove, nonostante la società di gestione dei servizi idrici sia stata rimunicipalizzata dieci anni fa, i prezzi hanno continuato a salire. E a far pagare oggi un metro cubo d’acqua più che a Berlino (5,82 euro).
In una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno gli italiani si potranno esprimere sul quesito riguardante l’abrogazione del decreto Ronchi, col quale nel 2009 è stato sancito che il servizio idrico non potrà più essere gestito da società pubbliche, ma solamente affidato a società che sono o totalmente private, o possedute da privati per almeno il 40%. Il secondo quesito riguarda invece la cancellazione del “Codice dell’ambiente”, una norma che prevede una quota di profitto sulla tariffa per il servizio idrico, la cosiddetta “remunerazione del capitale investito”.
Secondo i detrattori italiani dei referendum sull’acqua “privatizzare non può che migliorare la qualità dei servizi”. Per i sostenitori del referendum di Berlino, invece, in seguito alla privatizzazione parziale dei servizi idrici comunali i prezzi dell’acqua sono aumentati del 35%, collocandosi fra i più alti di qualsiasi altra città tedesca. A Berlino un metro cubo d’acqua costa 5,12 euro, a Colonia 3,26. Teniamolo ben presente, quando questa primavera ci recheremo a votare. Ce lo ricorda anche Dorothea Härlin, del comitato referendario berlinese, che sottolinea l’importanza internazionale del successo registrato nelle urne il 13 febbraio, ricordando che «non soltanto i berlinesi, ma i cittadini di tutto il mondo si battono per l’acqua».


mercoledì 23 febbraio 2011

17? ... milioni o miliardi? ... Infrastrutture per impedire l'"esodo biblico" dal Nordafrica

(E.I.R. Strategic Alert) - I cinquemila tunisini sbarcati a Lampedusa nella seconda settimana di febbraio non sono che l'inizio di quello che diventerà sicuramente un "esodo di proporzioni bibliche", come ha affermato l'ex prefetto di Roma Achille Serra, se non si abbandona completamente la politica economica della globalizzazione e si varano con urgenza programmi di sviluppo euro-africani. Il ministro Frattini fa bene a parlare della necessità di un "piano Marshall", ma nel sistema dell'euro queste resteranno parole scritte sulla sabbia.
La situazione è stata drammaticamente descritta da una delegazione del governo tunisino giunta a Roma il 17 febbraio. Il ministro dell'Industria e della Tecnologia Afif Chelbi ha definito "ridicola" l'offerta UE di 17 milioni come anticipo dei 258 milioni già promessi fino al 2013. L'offerta "dimostra che [l'UE] non ha capito la portata degli eventi storici in corso nel sud del Mediterraneo", ha denunciato Chelbi, aggiungendo: "Quando Catherine Ashton ha parlato di 17 milioni, il nostro ministro pensava di avere capito male e ha chiesto: 'Milioni o miliardi?'. Ancora una volta l'Unione Europea non è all'altezza del compito di confrontarsi con la regione".
Il finanziere Tarak Ben Ammar, che fa parte del "comitato dei saggi" che accompagna la riforma costituzionale in Tunisia, è stato ancora più duro: "Quello che l'Europa ha disposto in aiuti alla Tunisia è una mancia, quasi un insulto. Ci vogliono 10 miliardi come minimo per rimettere in piedi in sei mesi il turismo, l'economia, il lavoro del paese". Per Ben Ammar si tratta di volontà politica: "O l'Europa afferma che vuole sviluppare il nord Africa per non far arrivare gente nella propria terra o non saranno in 5 mila, ma in 500 mila ad arrivare sulle sue coste".
Se le nazioni europee (e noi parliamo intenzionalmente di nazioni e non di EU) intendono veramente aiutare la Tunisia e gli altri paesi del Nord Africa, ci sono alcuni progetti da far partire immediatamente, nel quadro di un approccio da vero sviluppo, e cioè dello sviluppo delle infrastrutture che rendano quei paesi produttivi in senso reale. Ci vuole un approccio integrato per le infrastrutture dell'energia, dell'acqua e dei trasporti. Si parte con il progetto della bonifica degli Shatt, le depressioni melmose in Tunisia e Algeria, che possono diventare centri agro-industriali. C'è poi il progetto, italiano, del tunnel tra la Tunisia e la Sicilia, che creerebbe un vero e proprio ponte terrestre euro-asiatico-africano. Il tunnel fu presentato per la prima volta ad un pubblico internazionale alla conferenza dello Schiller Institute a Kiedrich, in Germania, nel 2007 (qui: http://www.movisol.org/07news169.htm).
L'EIR ha parlato con l'autore, l'Ing. Pietro La Mendola, che ha guidato un team dell'ENEA. Il tunnel darebbe una ben maggiore importanza al collegamento stabile tra Messina e Reggio Calabria, facendone non più un'infrastruttura regionale italiana ma l'anello di un'infrastruttura intercontinentale. Si creerebbe un corridoio ferroviario di oltre 2500 km tra Tunisi e Berlino, che si allaccerebbe al corridoio est-ovest euroasiatico. Il progetto creerebbe diecimila posti di lavoro in Tunisia e fungerebbe da importante stabilizzatore dal punto di vista dell'emigrazione. Il tunnel, di solo trasporto merci, sarebbe composto da più sezioni lunghe fino a 60 km l'una, separate da quattro isole artificiali erette col materiale di scavo. I lavori potrebbero iniziare subito dopo il completamento di una prospezione geologica, che di solito impiegherebbe 4 anni ma che, se affidata all'ENI, sarebbe molto più rapida avendo l'ente italiano raccolto già dati sull'intera area nell'ambito della sua ricerca di idrocarburi. Una volta fatta la prospezione, erette le piattaforme marine e fatte giungere le "talpe" per la perforazione, si procede alla velocità di 1,5 km al giorno. Questo significa che in 60 mesi il tunnel è scavato.
L'Italia ha tutto l'interesse a muoversi senza attendere benedizioni dall'alto, perché si tratta di un progetto che estende lo sviluppo al mezzogiorno in termini di collegamenti ferroviari, energia, occupazione ecc. Nel momento in cui il ministro dell'Economia Tremonti compie dimostrativamente viaggi al Sud per testimoniare la abissale carenza di infrastrutture, e denuncia in Consiglio dei Ministri il gap di produttività da Nord a Sud, occorre muoversi con coraggio per attuare politiche che riflettono l'interesse del Mezzogiorno, dei nostri vicini nordafricani e della sicurezza nazionale.
L'ENEA ha sviluppato altre idee nell'ambito del suo programma "Progettoafrica", riguardanti la bonifica del deserto del Sahara, come nel caso dello Shatt El Djerid in Tunisia o nella New Valley in Egitto, che vanno nella stessa direzione della proposta Paumier-Roudere presentata dal movimento di LaRouche in Francia. Questi progetti sono la chiave per lo sviluppo agro-industriale e per il cambiamento climatico positivo, questo sì, fatto dall'uomo.
I progetti idrici per il Nord Africa si accompagnano al progetto Transaqua per rivitalizzare il Lago Ciad e per rinverdire la regione del Sahel, in una visione generale di sviluppo infrastrutturale pan-africano. Se questi progetti non verranno attuati con urgenza, allora vedremo l'incendio in Nord Africa espandersi presto all'Europa. La svolta, però, non è possibile senza sostituire l'attuale sistema finanziario in bancarotta con un sistema creditizio basato sui principii di Glass-Steagall, come LaRouche non si stanca di ripetere.

martedì 22 febbraio 2011

Dal Cairo al Wisconsin, la riforma Glass-Steagall ora!

(E.I.R. Strategic Alert) - Le ultime settimane sono state caratterizzate da un profondo cambiamento nella dinamica politica globale. In tutto il mondo, la popolazione si ribella non soltanto contro la fame e gli aumenti del prezzo del cibo, ma anche contro l'ingiustizia, la corruzione, l'oppressione e le elites reazionarie al potere. Perché, si chiedono, dovremmo accettare condizioni che ci privano del nostro futuro?
Nel 2008 le rivolte per la fame che investirono 40 paesi erano principalmente proteste contro i prezzi esorbitanti del cibo. Nel 2011 le rivolte in Nord Africa e nel sud ovest asiatico, ma anche le recenti manifestazioni di massa in Wisconsin e Ohio negli Stati Uniti contro il tentativo di distruggere i sindacati, sono il risultato del crollo del sistema finanziario globale. La gente comprende che, senza la libertà nella repubblica, non ci sarà né cibo né una speranza per il futuro.
Dall'Algeria alla Tunisia, dalla Libia all'Egitto, dallo Yemen alla Siria, al Libano, alla Giordania, all'Arabia Saudita, all'Iran, al Bahrain, fino al Wisconsin ed all'Ohio, è in corso un processo rivoluzionario. Le dittature e i sistemi totalitari che sono stati tollerati per così tanto tempo vengono ora rifiutati, e la gente è disposta a rischiare la vita per farle cadere, quando tali regimi sono incapaci di garantire le esigenze fondamentali della popolazione. Mentre questo processo si diffonde a livello internazionale, il mondo si trova di fronte a due sbocchi: o sprofondare nel caos e nei nuovi secoli bui, o sostituire il sistema finanziario in bancarotta con un sistema creditizio, separando le attività bancarie legittime dalla speculazione e dal gioco d'azzardo.
I tentativi, da parte del G20, di salvare il sistema bancario in bancarotta con i salvataggi e il continuo acquisto di titoli tossici non fanno che pompare altra liquidità nello stesso sistema marcescente. Ma il denaro regalato agli speculatori viene "investito" nella speculazione sulle materie prime e le derrate alimentari, conducendo ad aumenti dei prezzi incontrollati.
Come ha chiesto Helga Zepp-LaRouche in una dichiarazione del 20 febbraio, per impedire che l'inflazione dei prezzi provochi conseguenze politiche e sociali incontrollabili "devono essere adottati immediatamente controlli sui prezzi del cibo e dell'energia, così come uno standard globale come Glass-Steagall". Quest'ultimo proteggerà le banche commerciali azzerando i titoli delle banche d'affari e mettendo in quarantena il "sistema bancario ombra" denunciato dalla Commissione Angelides al Congresso USA.

martedì 15 febbraio 2011

Corsa alle liberalizzazioni: i bankers ringraziano

(MoviSol) - Sotto la spinta di una serie interminabile di scandali, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha deciso che sarebbe ora cambiare argomento e affrontare "i problemi del paese". Così ha annunciato un nuovo piano per la crescita, incentrato sulle liberalizzazioni di vari settori economici, a partire da cambiamenti alla Costituzione stessa. Obiettivo: liberarci dalle troppe regole che impediscono all'Italia di spiccare il volo. La risposta del Pd di Pierluigi Bersani non si è fatta attendere: ma quali liberalizzazioni? Quelle vere le ho fatte io, e adesso ne propongo ancora di più. Insomma, si è innescata una gara a chi può essere più liberista, tutto a favore della "crescita" economica.
La realtà però, è che questa gara favorisce soltanto gli interessi politico-finanziari di Bruxelles e la City di Londra, ed i loro promotori in Italia. Come abbiamo scritto dopo la spaccatura della maggioranza nello scorso autunno, lo scontro politico italiano fa parte di uno scenario disegnato ad alto livello e evidente a chiunque volesse alzare lo sguardo dalla palude degli scontri quotidiani: la creazione di un esecutivo di emergenza che potrà attuare un programma di feroce austerità sul modello dei piani annunciati e lanciati in Grecia, Irlanda, Gran Bretagna e Francia. I mercati finanziari richiedono lacrime e sangue, altrimenti gli attacchi speculativi ai titoli di stato riprenderanno in qualsiasi momento, con una moneta unica che si avvia verso la propria fine. Così i cittadini devono sottostare ad una nuova ondata di salvataggi per chi ha speculato, i veri destinatari dei programmi di stabilizzazione a livello europeo.
Insieme ai tagli serviranno le famose "riforme strutturali" che tradotte in termini reali porteranno ad ulteriori privatizzazioni e liberalizzazioni, annullando le tutele dei cittadini di fronte agli interessi speculativi. Montezemolo potrà garantirsi i profitti dell'alta velocità, come i Benetton si sono presi quelli delle autostrade. Seguono le municipalizzate, l'acqua, l'energia e tutto il resto, alcuni già avviati negli ultimi anni. Come insegnano Gran Bretagna e Stati Uniti, la deregulation è la precondizione per il saccheggio da parte degli interessi privati, non per l'efficienza, che viene invece realizzata con investimenti in infrastrutture e alta tecnologia.
Finora il Governo Berlusconi è stato poco affidabile nell'attuare il programma liberista richiesto, anche a causa di un Ministro dell'Economia che, pur imponendo una linea di rigore per quanto riguardano i conti pubblici, cerca in continuazione modi di ricostruire l'economia reale attraverso i progetti infrastrutturali e la richiesta di una riforma internazionale che separi le attività reali da quelle speculative; infatti Tremonti ha contrastato subito il nuovo piano di Berlusconi, provocando l'ira del suo vero promotore, Giuliano Ferrara.
Ora Berlusconi e Bersani sembrano aver deciso di accontentare i bankers in anticipo, per evitare a loro di doversi sporcare le mani manipolando il quadro politico italiano. Vogliono l'accelerata liberista? Gliela diamo noi, così facciamo vedere quanto siamo bravi e magari riusciamo a tenere/ottenere le posizioni di potere.
Mentre negli Stati Uniti la Commissione di Inchiesta sulla Crisi Finanziaria (FCIC) guidata da Phil Angelides ha pubblicato un rapporto di importanza fondamentale, indicando l'abrogazione di Glass-Steagall (la separazione tra banche commerciali e banche d'affari) e la deregulation in generale come le cause del crollo economico-finanziario di questi anni, in Italia si vuole abbracciare la malattia, piuttosto che curarla. I bankers se la ridono veramente.
Per aiutare a contrastare la follia di chi crede che le liberalizzazioni siano la fonte della crescita economica (tesi che sembra ormai scritta nel DNA dell'establishment economico, nonostante la sua dimostrata fallacia) MoviSol ripropone la lettura dell'eccellente studio di Claudio Giudici del 2008 sul tema delle privatizzazioni e liberalizzazioni in Italia, mostrando come la scossa data all'economia italiana negli anni Novanta iniziata con i governi Amato e Ciampi (tanto invocati da alcuni personaggi in questi giorni) in realtà ha inferto un colpo durissimo al tessuto industriale e alla sovranità del paese. Vogliamo davvero ripetere questa esperienza, per paura di inimicarsi i poteri forti a livello internazionale?

giovedì 10 febbraio 2011

Il sexgate mira a fermare Tremonti più che Berlusconi!

Durante l'Ecofin del 18 gennaio, il Ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha affermato: “In sostanza va affermandosi la tesi (avanzata dall'Italia) che in molti casi è la "criticità" del settore finanziario ad aver determinato la crisi dei debiti sovrani di alcuni paesi, Grecia e Irlanda in testa”. Tremonti ancora una volta mette sotto accusa il sistema finanziario e le banche, ponendo l'accento sul fatto che non si possa agire sul debito pubblico – ciò significando tagli alla spesa sanitaria, all'istruzione, allo sviluppo infrastrutturale, alla sicurezza – senza parallelamente procedere ad una riforma del sistema finanziario. Invero, egli sottolinea che un paese come l'Irlanda non aveva un problema di debito pubblico, ma che questo è emerso soltanto in seguito ai salvataggi delle banche. E tutto questo lo ha potuto dire dall'alto di una posizione politicamente e moralmente privilegiata: l'Italia non ha dovuto praticare salvataggi delle banche nazionali, ed ha gestito la crisi mantenendo la spesa pubblica annuale, in rapporto al p.i.l., a livelli molto più contenuti rispetto agli altri stati europei e transatlantici. Ma quella che può essere considerata una posizione fuori dal coro, fuori dall'ortodossia politico-economica globale, caratterizzandosi, per la sua unicità, come quella dotata di maggior coraggio e leadership tra tutti i paesi del G8 e dell'Unione Europea da almeno il 2008 (già nei mesi prima che scoppiasse con tutta la sua violenza la più grave crisi economico-finanziaria dal 1929), è stata sistematicamente minata dalla credibilità che il Governo Berlusconi andava perdendo a causa di uno stillicidio di inchieste a base di scandali sessuali che hanno riguardato in primis il premier italiano.
Nel pieno dell'accelerazione della crisi finanziaria – evidente se si guarda all'iperinflazione che riguarda le materie prime – , l'Italia potrebbe giocare un ruolo primario, perchè la leadership mostrata da Tremonti troverebbe ulteriore forza in altre iniziative italiane che vanno nella giusta direzione: la proposta dell'ex Ministro dell'industria, prof. Paolo Savona, di uscita dall'euro, e le molteplici risoluzioni per la riforma del sistema finanziario internazionale approvate negli ultimi anni dal Parlamento italiano con maggioranze trasversali (cose per cui il movimento di LaRouche ha giocato un ruolo determinante). Questo, nonostante quella forma di compromesso con il sistema monetarista, che sono gli Eurobond di Tremonti; infatti, ciò di cui abbiamo bisogno è la ben più radicale rottura con il sistema monetarista ed il passaggio a sistemi creditizi nazionali, in quanto solo attraverso il credito sovrano potremo avere il ritorno della primazia della politica sui poteri finanziari ed il rilancio dell'economia reale. Infatti, a tal proposito, si può rilevare un grande paradosso: per via del ricatto della finanza internazionale contro ogni Paese (Italia compresa), che minaccia di scatenare la speculazione contro i titoli di stato in qualsiasi momento, Tremonti si trova costretto a continuare la politica del “Patto di stabilità” europeo, imposta proprio da chi vorrebbe contrastare.
La crisi, in particolare, va maturando su due fronti dove l'Italia, più di altri, potrebbe e dovrebbe essere punto di riferimento per la risoluzione degli stessi: la crisi dell'euro (Grecia, Irlanda, la criticità della situazione di Portogallo e Spagna) e quella dell'area sud-mediterranea e medio-orientale (Tunisia, Algeria, Egitto, Marocco, Libano, Libia, Giordania, Yemen). All'interno dell'Eurosistema, l'Italia è promotrice di una riforma del patto di stabilità, con la mira di allentare il cappio rappresentato dai debiti pubblici, conscia che senza la possibilità di effettuare investimenti infrastrutturali e senza sostenere il welfare, non sia possibile assistere ad alcun rilancio dell'economia reale. Parallelamente, a livello extra-europeo, essa denuncia e propone la necessità di riformare l'intero sistema finanziario internazionale per sottoporre a rigidi controlli la speculazione. In merito all'area sud-mediterranea, l'Italia è il primo partner commerciale del Libano, il secondo partner commerciale di Tunisia, Algeria ed Egitto, e il terzo partner del Marocco, mentre per la Giordania è il secondo partner dell'Unione Europea. Da tutto ciò ben si comprende l'interesse che l'Italia ha per questa area e cosa possa voler dire, per interessi antagonisti, avere un'Italia completamente destabilizzata e concentrata – sia nella sua classe dirigente che nella sua opinione pubblica – su scandali che quanto meno hanno un rilievo secondario rispetto ad interessi geo-strategici ed economici.
D'altra parte, quando il 7 febbraio 1992, venne firmato il Trattato di Maastricht, appena dieci giorno dopo, l'allora pubblico ministero Antonio Di Pietro, chiese ed ottenne un ordine di cattura per l'ingegner Mario Chiesa, dando così avvio alla stagione di Tangentopoli. Quello che sicuramente è il più importante accordo internazionale del dopoguerra firmato dall'Italia, con conseguenze che di fatto l'hanno privata di una reale sovranità economica, sottoponendola agli asfissianti parametri del patto di stabilità, avvenne a Camere sciolte, con un Governo in prorogatio, e con un dibattito limitato dal caos di un'inchiesta giudiziaria che ha avuto evidenti obiettivi politici. Fra l'altro, il Governo cadde e le Camere furono sciolte in una situazione piuttosto strana, il 2 febbraio 1992 (dunque appena cinque giorni prima di quella importantissima firma). Il Corriere della Sera definì la procedura di scioglimento “se non proprio anomala, almeno inconsueta”, ed il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga – che fu l'unico grande dirigente DC a non esser coinvolto dalla stagione di Mani Pulite – la giustificò con queste ambigue parole: “Ho sciolto le Camere prima della scadenza perchè non funzionavano e toglievano legittimità alle istituzioni... Credo giunto il momento magico per rinnovare anche moralmente il nostro sistema politico, per rifondare la Repubblica con un nuovo patto nazionale”.
Questo riferimento non deve esser considerato inappropriato, perchè ciò che sta avvenendo oggi in Italia è da considerarsi la prosecuzione di quella stagione di interdizione della sovranità politico-economica nazionale, che senza un intervento pesante della magistratura contro l'allora classe dirigente, non sarebbe mai cominciata. Oggi, il baluardo che l'Italia ha contro la prosecuzione di quella stagione è rappresentato in primo luogo da Tremonti, ed il modo più facile per abbatterlo è colpire quelle che rischiano di rivelarsi assolute debolezze in Silvio Berlusconi. Ma il pericolo che Tremonti rappresenta per l'oligarchia finanziaria, come già detto, non è limitabile alla sola Italia, ma può avere risvolti a livello internazionale.
D'altra parte, le rivolte che stanno avendosi nell'area sud-mediterranea e medio-orientale, lungi dall'essere la mera protesta contro modelli politico-economici tipici di quell'area, sono la conseguenza dei disagi economici procurati da sistemi dispotici creatisi sotto il condizionamento degli epigoni della globalizzazione finanziaria. La profonda crisi economica e sociale è il prodotto della politica liberista imposta dal FMI e dall'Unione Europea. Già privi della sicurezza alimentare, questi paesi sono stati colpiti duramente dall'aumento dei prezzi delle merci a partire dal 2007, e che ora ha riaccelerato a livelli superiori a quelli delle rivolte del 2008. Nel caso della Tunisia (ma anche dell'Egitto e del Marocco) la collusione è evidente. Oltre vent'anni di cooperazione tra Tunisi e Banca Mondiale e FMI ha portato ad un'alta disoccupazione, anche tra le fasce più istruite. Un rapporto della Banca Mondiale nota che il numero dei giovani laureati disoccupati è quasi triplicato in 10 anni, da 121.800 nel 1996-97 a 336.000 nel 2006-2007. Spinto dalle istituzioni internazionali, dall'UE e dalla Francia, il governo ha realizzato “riforme” come la privatizzazione delle infrastrutture e delle industrie (compresi i porti, le acciaierie e le imprese minerarie), l'eliminazione dei dazi, la liberalizzazione delle esportazioni, la svalutazione della moneta, l'apertura del mercato del lavoro alle imprese estere che impiegano la forza lavoro tunisina a salari bassi, per produrre parti di ricambio per automobili e articoli di abbigliamento. La Tunisia è stato il primo paese nordafricano a stipulare l'accordo di libero scambio con l'UE (1995) che ha permesso l'applicazione radicale di queste politiche liberiste.
E' altresì da considerare che la destabilizzazione interna che sta subendo la politica italiana, attraverso gli attacchi al Popolo della Libertà nella figura di Berlusconi, ha già interessato il Partito democratico nella sua ala dalemiana, colpita anch'essa da una serie di inchieste che hanno depotenziato fortemente il partito. Il PD, infatti, è stato reso privo della leadership che avrebbe potuto avere, ed alla mercè di continue derive demagogiche e giacobine non funzionali all'interesse nazionale.
In questa situazione la politica italiana deve stare attenta a non farsi tirare dentro alla complessiva strategia di caos che coinvolge l'Italia, e piuttosto essere capace di anteporre l'interesse per una autentica riforma del sistema finanziario internazionale, dell'Eurosistema, e per lo sviluppo delle aree più povere del pianeta. In questa ottica: una nuova Bretton Woods; la proposta del prof. Savona per la fuoriuscita dall'euro; e la “rivoluzione azzurra” per il Nord-Africa, capace di dare acqua ed infrastrutture di base, possono e devono essere i programmi cardine di una politica che voglia ritrovare la dignità di tornare a governare gli Stati, piuttosto che esserne costantemente uno dei tanti elementi condizionati dagli interessi finanziari.

Claudio Giudici

Rapporto Angelides: la crisi poteva essere evitata!

(MoviSol) - Il 27 gennaio 2011 la Commissione di Inchiesta sulla Crisi Finanziaria, creata dal Congresso USA nel 2009 per stabilire le cause del crac finanziario del 2007-2008, ha fatto la storia. Il suo rapporto, noto come Rapporto Angelides dal nome del presidente della Commissione, Philip Angelides, fornisce un resoconto straordinariamente veritiero del processo decennale di deregulation bancaria, "shadow banking" e speculazione in derivati finanziari che ha portato al crac globale. Sottolinea che l'abrogazione della Legge Glass-Steagall nel 1999, dopo che la Federal Reserve aveva adottato in tutti gli anni Novanta misure per indebolirla, è stato un fattore centrale nel provocare il crollo.
Per chi ha seguito Lyndon LaRouche negli ultimi decenni, le conclusioni e la cronologia del rapporto Angelides non sono affatto una sorpresa. In effetti, LaRouche aveva sistematicamente messo in guardia dalle misure che vengono denunciate nel rapporto, proponendo una politica alternativa, che era stata respinta dagli "esperti" finanziari e dalle autorità.
Nel Weekly Report del 2 febbraio alla LPAC-TV, LaRouche nota che "questo è il primo rapporto ufficiale, pubblicato da un ente commissionato dal governo USA, che pubblica la verità generale sulla storia economica recente degli Stati Uniti". Anche se non prescrive la soluzione, lo studio della Commissione Angelides indica gli errori principali che sono stati commessi, ha detto LaRouche, il che è essenziale per uscire dal caos attuale.
Per coloro che continuano a sostenere che il crac fosse imprevedibile, le conclusioni del rapporto affermano inequivocabilmente: "Concludiamo che questa crisi finanziaria poteva essere evitata. La crisi è stata il risultato di azioni e omissioni umane, non di Madre Natura o di modelli computeristici impazziti. I capitani della finanza e del nostro sistema finanziario hanno ignorato gli avvertimenti e non sono stati capaci di mettere in dubbio, comprendere e gestire i rischi in evoluzione di un sistema essenziale per il benessere del pubblico americano. La loro è stata una grave mancanza, non un passo falso… Una crisi di questa grandezza non doveva verificarsi. Per parafrasare Shakespeare, la colpa non sta nelle stelle, ma in noi".
La Commissione FCIC indica correttamente che oltre 30 anni di "deregulation e affidamento all'autoregolamentazione delle istituzioni finanziarie, voluta dall'ex governatore della Federal Reserve Alan Greenspan e da altri, sostenuta dalle amministrazioni successive e dal Congresso e promossa attivamente dalla potente industria finanziaria ad ogni passo, hanno eliminato tutele chiavi, che avrebbero potuto contribuire ad evitare la catastrofe. Questo approccio ha dato il via a falle nella supervisione di alcune aree critiche con migliaia di miliardi di dollari a rischio, come il sistema bancario ombra e i mercati dei derivati OTC (over-the-counter). Inoltre, il governo ha permesso a imprese finanziarie di scegliere gli enti di vigilanza preferiti in quella che è diventata una corsa al supervisore più debole".
Il rapporto è devastante per la Federal Reserve ed altri enti di vigilanza, agenzie di rating del credito e gli stessi istituti finanziari. In effetti, la corruzione era pervasiva in tutto il sistema. Esso elenca ad esempio le cifre folli spese in bustarelle e denaro per le lobby di Wall Street che andavano a Washington per assicurarsi che venisse abrogata la legge Glass-Steagall, sostenendo che gli enti di vigilanza "non avevano la volontà politica" di scrutinare e corresponsabilizzare gli istituti che erano tenuti a vigilare, e riporta che l'industria finanziaria ha speso almeno 2,7 miliardi di dollari per il lobbying tra il 1999 ed il 2008, oltre al miliardo di dollari in contributi per la campagna elettorale provenienti da esponenti legati a Wall Street. Il rapporto nota anche quanto abbia sofferto l'economia reale a causa della crescita a dismisura del settore finanziario.
La conclusione dell'introduzione è un grido di battaglia implicito: più di due anni dopo l'intervento senza precedenti del governo federale sui mercati finanziari "il nostro sistema finanziario è, per molti aspetti, ancora immutato rispetto a quello che esisteva alla vigilia della crisi. In effetti, sulla scia della crisi, il settore finanziario USA è ancor più concentrato e nelle mani di pochi grandi istituti sistemicamente significativi".
"Anche se non ci è stato chiesto di fare delle raccomandazioni su quale politica adottare, lo scopo del nostro rapporto è quello di dare un resoconto su ciò che è accaduto per poter decidere un nuovo corso… sarebbe la più grande tragedia se accettassimo il ritornello che non era possibile prevedere la crisi e quindi non sarebbe stato possibile far niente. Se accettiamo questa nozione, la crisi si ripeterà".
Il comitato politico di LaRouche (LPAC) ha lanciato una mobilitazione per "ripristinare la legge Glass-Steagall", usando il rapporto Angelides per sensibilizzare centinaia di parlamentari degli stati e fornire loro munizioni preziose nella battaglia per costringere il Congresso ad attuare una riorganizzazione bancaria generale. Il rapporto, che conferma in pieno i moniti di LaRouche e del suo movimento, circola ampiamente a livello nazionale come libro tascabile.
Al contempo la coraggiosa offensiva pubblica di Phil Angelides e l'opposizione dei repubblicani hanno mantenuto viva l'attenzione sui risultati dell'inchiesta della sua commissione. Darrell Issa, presidente repubblicano della Commissione sulla Vigilanza e la Riforma Governativa, Spencer Bachus, presidente della Commissione Finanze, e Patrick Henry, presidente della Commissione Bancaria, hanno chiesto che venga pubblicato il bilancio della FCIC, i suoi registri di spesa, quelli dello staff, ed oltre 400.000 email interne. In una lettera al presidente Angelides, sostengono che è stata colpa della Commissione se quattro membri repubblicani hanno dovuto prendere le distanze dalle conclusioni del rapporto secondo cui l'abrogazione di Glass-Steagall ha contribuito al crac.
Il contrattacco repubblicano sta suscitando ancor più attenzione per il rapporto della FCIC, in attesa del momento in cui il Presidente Angelides testimonierà alla Commissione di Bachus il 16 febbraio. Il 2 febbraio sono stati pubblicati vari attacchi ai membri repubblicani "dissenzienti" della commissione, tra cui uno dell'On. Brad Miller, democratico della stessa commissione. Il Prof. William Black, ex regolatore bancario, denuncia in un articolo alla newsletter Mortgage Investor il commissario "dissidente" Peter Wallisson dell'American Enterprise Institute, per i suoi gravi conflitti di interesse in quanto fu lui a promuovere la deregulation quando era consigliere del Presidente Reagan, e banchiere di Wall Street egli stesso.
Rispondendo per iscritto ad Issa e gli altri, Angelides sostiene che è previsto che la FCIC concluda i lavori il 13 febbraio, e che lo staff che resta lavora per raccogliere i documenti storici della commissione per gli Archivi Nazionali. Aggiunge che non dispone né dello staff né dei fondi necessari ad adempiere alle richieste voluminose dei repubblicani (ironicamente, una delle accuse dell'On. Issa è proprio che la FCIC avrebbe speso troppi soldi).
Nel frattempo Angelides ha concesso varie interviste, puntando il dito contro quello che il rapporto definisce il "sistema bancario ombra" che nel 2008 è arrivato a superare le dimensioni del sistema bancario regolamentato (13 trilioni di dollari rispetto agli 11 trilioni del sistema regolamentato), grazie proprio all'abolizione delle tutele e della muraglia prevista dalla legge Glass-Steagall.
Nella trasmissione di Brian Lehrer su WNYC, Angelides ha invitato gli ascoltatori a scaricare e leggere il rapporto della FCIC spiegando perché sia tanto importante. Ha detto di aver avuto a che fare con l'industria finanziaria tutta la vita, e di essere rimasto "sbigottito" e "ammutolito" da quello che ha appreso nel corso di questa inchiesta.
"Il nostro sistema finanziario è passato da un sistema che doveva sostenere l'economia reale (imprese, creazione di posti di lavoro, creazione di ricchezza per il paese) ad un sistema finalizzato solo a fare soldi, all'ingegneria finanziaria e basta, a grande detrimento del paese… è tutto lì, è una storia che reggerà la prova del tempo".
In un'intervista alla CNBC Angelides sottolinea che gli stessi fattori di rischio del crac del 2008 sono ancora lì, e che la crisi potrebbe quindi ripetersi. Riferisce che le "rapide vendite" del rapporto in formato libro tascabile sono la prova del fatto che gli americani hanno un grande bisogno di scoprire che cosa è successo e come impedire che succeda di nuovo.

lunedì 7 febbraio 2011

Una setta di banchieri decide le sorti del mondo

(La Stampa) - Nove banchieri delle più importanti istituzioni finanziarie di Wall Street si riuniscono il terzo mercoledì di ogni mese nel Distretto finanziario di Manhattan per assicurarsi il controllo e la floridezza del mercato che più preoccupa la Casa Bianca: quello dei derivati.
L'amministrazione Obama ha tentato invano di sottoporli a rigidi controlli nella recente riforma finanziaria varata dal Congresso, e Paul Volcker, l'ex presidente della Federal Reserve consigliere dello Studio Ovale, ne è il critico più aspro, indicandoli come un mercato che «sfugge a ogni regola» e continua a minare la stabilità di Wall Street dopo aver già contribuito alla crisi del settembre 2008. Ma le pressioni di Casa Bianca e Congresso hanno una debole eco nelle riunioni che vedono attorno ad un tavolo banchieri di giganti come JP Morgan Chase, Goldman Sachs, Deutsche Bank e Morgan Stanley interessati soprattutto a mantenere il controllo di scambi annuali per molti trilioni di dollari che sfuggono a ogni supervisione visto che i derivati sono prodotti finanziari in gran parte non quotati in Borsa.
Dunque vengono scambiati privatamente e spesso registrati nei bilanci in maniera così ambigua da suggerire sospetti di illeciti. E' proprio per indagare sul possibile rischio di frodi capaci di mettere a rischio la stabilità delle maggiori banche - e dunque i risparmi di milioni di cittadini - che il ministero della Giustizia di Washington ha creato una task force investigativa, il cui titolare Robert Litan ha scoperto il segreto del «club del mercoledì» finito ieri sulla prima pagina del New York Times.
A dare corpo all'indagine sono state le testimonianze raccolte fra gli alti funzionari di Bank New York Mellon, fondata nel 1784, che hanno consentito di ricostruire come la loro richiesta di entrare nel «club del mercoledì» - che porta il nome di Ice Trust - sia stata rifiutata dai nove banchieri sulla base della convinzione che «la domanda non era sostenuta da un sufficiente volume di scambi di derivati durante l'anno».
«Si tratta di una risposta assurda perché siamo una delle banche da più tempo attive nel Distretto finanziario» ha fatto presente Sanjay Kannambadi, ceo della sussidiaria creata da Bank New York Mellon per entrare nell'Ice Trust, secondo il quale «il vero motivo per cui ci hanno tenuti fuori è la volontà di mantenere alti margini di profitto e di non condividere con altri la redazione delle regole che governano questo tipo di scambi».
Di fronte a tale ricostruzione Robert Livan non ha fatto altro che riscontrare la possibile creazione di un gruppo finanziario impegnato a gestire il mercato dei derivati con metodi non pubblici, sollevando lo scenario di qualcosa che assomiglia a una setta segreta di banchieri nel cuore di Wall Street per gestire i prodotti derivati che continuano a essere quelli capaci di garantire i maggiori profitti economici.
Da qui l'inchiesta, solamente all'inizio, che minaccia di mettere a soqquadro Wall Street. Gary Gensler, presidente della Commodity futures trading commission incaricata di regolare gli scambi della maggioranza dei derivati, suggerisce la necessità di «una maggiore supervisione sull'operato delle banche» al fine di scongiurare il rischio di intese non pubbliche destinate ad «aumentare i costi per tutti i cittadini americani». Ma i membri del «club del mercoledì» respingono tali accuse, affermando l'esatto contrario. «Il sistema creato consente di ridurre i rischi esistenti in questo mercato e fino a questo momento la cooperazione fra noi si è rivelata un successo» ha dichiarato al New York Times una portavoce di Deutsche Bank, lasciando intendere che il super-club svolge quelle mansioni di controllo che la riforma finanziaria non è riuscita ad assegnare ad alcuna istituzione.

domenica 6 febbraio 2011

La deregulation è la causa della crisi, non un motore di crescita!

4 febbraio 2011 (MoviSol) - Dopo settimane di discussioni indegne sullo scandalo Ruby, finalmente si torna a parlare di economia. Lo ha fatto lo stesso Berlusconi, presentando il suo programma "liberale" che dovrebbe fungere da stimolo alla crescita economica (dal 3 al 4%, stando a quanto ha dichiarato). Messo alle strette dagli scandali, dai giudici e dalle numerose richieste di dimissioni, Berlusconi si è rivolto a Bersani ed al PD proponendo un accordo bipartisan sulle misure da lui proposte, per salvare il suo governo. Le proposte di "deregulation" di Berlusconi giungono, ironicamente, pochi giorni dopo la pubblicazione del tanto atteso rapporto della Commissione di inchiesta sulla crisi finanziaria del Congresso USA, detto anche Rapporto Angelides dal nome del Presidente della Commissione, Phil Angelides.
Il rapporto Angelides conferma in pieno quanto LaRouche e il nostro movimento denunciano fin dal 1997: la crisi del 2007 è stata provocata proprio da quella "deregulation" che Berlusconi (e il suo "grillo parlante" liberista, Giuliano Ferrara) tanto invocano, e dalla sistematica abrogazione a partire dal 1987, di tutte le regolamentazioni introdotte dalla legge Glass-Steagall, ovvero la legge voluta da Roosevelt nel 1933 per mettere fine alla Grande Depressione separando le banche d'affari dalle banche commerciali. Non è dunque lo "statalismo" il problema dell'economia italiana, e di quella mondiale, quanto semmai l'assenza totale dello stato in economia, che lascia il campo libero alla speculazione finanziaria, vera causa dell'aumento dei prezzi del petrolio, della benzina, dei generi alimentari, e dell'iperinflazione stile Weimar.
Come LaRouche ripete da anni, soltanto il ripristino della legge Glass-Steagall, negli Stati Uniti come in Europa, e grandi progetti infrastrutturali (come il NAWAPA, il Transaqua, il ponte terrestre eurasiatico) potranno stimolare una vera crescita economica. Non la deregulation, non l'abolizione dell'articolo 41 della nostra Costituzione. È su questo punto che si misura la capacità di leadership della sinistra, a partire dal PD di Bersani, che invece di occuparsi delle feste ad Arcore potrebbe finalmente mettere alla prova la sua capacità di governo. Dovrebbe accettare la proposta di un patto per il paese, ma cambiandone il contenuto. Se si addivenisse ad un buon programma per merito della sinistra e questo fosse applicato concretamente, gli elettori saprebbero premiarne gli autori. L'alternativa è l'inasprirsi di uno scontro tra guelfi e ghibellini che sta lacerando il paese e che, dopo aver lasciato l'Italia in una rovina istituzionale, si procrastinerebbe a lungo anche dopo la scomparsa di Berlusconi.
L'Italia, come il mondo intero, ha bisogno di un Roosevelt capace di prendere in mano le redini dell'economia, e del credito, invece di lasciare ogni decisione a Wall Street, alla City di Londra, al gruppo bancario Inter-Alpha ed alla Banca Centrale Europea. Certo, le decisioni non vengono prese a Roma, ma a Washington, e con un Obama che prende ordini dalla City di Londra e da Wall Street, il New Deal rooseveltiano appare lontano. Ma l'Italia può e deve contribuire alla discussione in corso, in quelli che una volta si chiamavano i "corridoi del potere", a partire dal Congresso USA. Il rapporto Angelides potrà dare il via alle misure rooseveltiane proposte da LaRouche dai suoi 6 candidati al Congresso USA. LaRouche è stato sentito su questo tema anche dal Parlamento italiano nel giugno 2009 prospettando una via di uscita dalla crisi (vedi http://www.movisol.org/09news113.htm). Sempre al Parlamento italiano sono state presentate due mozioni per una legge Glass-Steagall, la prima al Senato (dal Sen. Oskar Peterlini) e la seconda alla Camera (dall'on. Catia Polidori). Questo è il piano economico "bipartisan" di cui si dovrebbe discutere, per rilanciare l'occupazione ed evitare una crisi greca anche da noi, non la deregulation!
Liliana Gorini, Presidente di MoviSol

venerdì 4 febbraio 2011

Hankel ricorda che l'ultimo salvataggio bancario portò al regime di Hitler

2 febbraio 2011 (MoviSol) - Parlando il 28 gennaio al Forum Economico Mondiale di Davos, durante la sessione dedicata alla solidità del sistema dell'euro, il prof. Wilhelm Hankel ha criticato duramente il governatore della BCE Jean-Claude Trichet, come lui uno dei relatori sul podio.
L'economista si è presentato come "proveniente da un Paese che sta ancora soffrendo del tragico errore commesso un'ottantina di anni fa, quando un governo cercò di risparmiare sulle spese pubbliche e contemporaneamente di colmare il debito pubblico – quello fu l'ultimo governo prima che Hitler ascendesse al potere".
Quindi ha affermato che la filosofia con cui gli "eurocrati" propongono tagli drastici al bilancio dopo aver sacrificato la vecchia moneta nazionale in favore di quella artificiale dell'euro, rende i governi incapaci di creare tutta la prosperità possibile per le proprie nazioni e rimuove i pilastri – bilancio e moneta – su cui poggia qualunque stato sovrano.
Infine si è definito un "democratico" che vede in tali politiche un pericolo per la democrazia stessa e ha detto che, in considerazione della bancarotta di due terzi delle nazioni dell'euro, il sistema della moneta unica è destinato al fallimento.
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giovedì 3 febbraio 2011

Cari compagni, per il nostro bene, fermatevi

Care compagne e cari compagni, per carità, per il nostro bene, fermatevi.
Il nostro avvenire, la libertà, i nostri diritti e quelli delle persone colpite dalla crisi e dall’ingiustizia sociale, non possono essere affidati alla legge e alla violenza dello Stato. Ai tribunali. Alla repressione. In passato ci è capitato, qualche volta, di pensarlo. Poi abbiamo capito che sbagliavamo.
Non possiamo sperare nel carcere, nell’arresto dell’avversario più detestato, nei sistemi di intercettazione a tappeto, nella logica dei corpi separati e persino nell’intervento del Vaticano per ottenere ciò che non abbiamo ottenuto con il consenso.
Nel giustizialismo non c’è meno oscurità che nel comportamento arrogante della politica di potere.
Rischiamo di trasformare il popolo della sinistra, dei democratici, in tricoteuses compiacute e senza idee, che se ne stanno lì davanti alla ghigliottina e assistono al Terrore rivoluzionario mediatico e alle controffensive della Vandea. Oppure in castigatori moralisti dei comportamenti privati e sessuali di chicchessia, fino ad invocare l’ingerenza della Chiesa sulla politica, e a scagliarci contro le donne poco castigate, contro i libertini, contro gli eccessi sessuali, o contro il peccato.
Certo, cari compagni, nel nostro passato abbiamo qualcosa che non va. Vi ricordate quando pensavamo che la “celere” e le leggi speciali e le carceri e le proibizioni fossero il modo giusto per risolvere  il disagio sociale o la ribellione dei giovani? E mettere in salvo la linea del partito? Vogliamo liberarci di quel passato, oppure vogliamo riprodurlo tale e quale, ma senza avere più il partito, né la linea, e senza esserci accorti di quanto sono cambiate le cose?
Che vuol dire per noi essere di sinistra? Più o meno significa questo: indicare una missione e obbiettivi per la crescita dell’equità, della giustizia, della libertà. Giusto? Ma qualcuno ci dice: “D’accordo,  avete ragione, ma per ora c’è una emergenza più grande della giustizia sociale o della libertà. Questa emergenza è la lotta contro la corruzione e contro il malcostume”.
Giusto, la corruzione va perseguita. Ma non è l’emergenza delle emergenze. E la corruzione va perseguita, ma non, come fu nel ’92-’94, decapitando una classe politica, o esercitando la pressione della carcerazione preventiva, a volte abusiva. E’ troppo lunga la lista di errori, di vittime, di interferenze nella vita politica dovute a processi mediatici o sbagliati. Dobbiamo difendere il sistema dei diritti dell’imputato la cui salvaguardia risale a prima della stessa Rivoluzione francese. E la corruzione va combattuta sì con le indagini, ma soprattutto con l’efficienza e la trasparenza delle funzioni pubbliche, come dicono i rapporti dell’Ocse sull’argomento: perchè una società in cui lo Stato non funziona finisce per avere bisogno di corrotti o servi per funzionare.
L’esercizio della giustizia deve essere efficace, ma esemplare nel rispetto delle regole e nella sobrietà dei comportamenti, più di quanto non spetti agli imputati. Il braccio della legge deve esercitarsi senza ossessioni di protagonismo. I poteri di indagine non devono ridurre i cittadini, testimoni o sospettati, a numeri di telefono intercettabili e a condannati molto prima del giudizio, né a quei poteri debbono sommarsi considerazioni moralistiche, né va utilizzato in modo devastante il circuito mediatico come prima ed ultima sede  di sentenza.
Non lo credevamo, ma oggi la sinistra rischia una involuzione autoritaria, rischia di abituarsi a pratiche liberticide.
E per di più questa involuzione si realizza circondata da una sorta di consenso totalitario, che si somma alla paura del dissenso per meschine finalità politiche o elettorali. E’ una doppiezza che abbiamo allontanato da tempo, e che non renderà più credibili i propositi di riscatto sociale, non sanerà le divisioni, ma renderà la società meno libera e più ingiusta.
Cari compagni, evitiamo di trasformare la sinistra in una nuova destra, pulita e reazionaria, bigotta e illiberale, antifemminista, moderata e populista. Siamo ancora in tempo. L’Italia ha bisogno della sinistra. Non ha bisogno di manette né di intellettuali o di politici che giocano a fare gli sbirri.

Piero Sansonetti
Fabrizio Rondolino
Ottaviano Del Turco
Claudio Velardi
Massimo Micucci
Enza Bruno Bossio

martedì 1 febbraio 2011

Le banche internazionali dichiarano guerra agli enti locali

(E.i.r.) - Lo scontro tra gli enti locali italiani e le banche internazionali sui contratti derivati sarà il banco di prova per vedere se il diritto costituzionale sarà in grado di tener testa al "post-Westfalico" diritto europeo, basato sul furto. Dopo che numerosi enti locali hanno fatto ricorso ai tribunali per ripudiare i fraudolenti contratti derivati, le banche si sono rivolte a Londra per proteggere i loro cosiddetti diritti.
J.P. Morgan Chase & Co., UBS e Bank of America sono tra le banche che hanno denunciato diverse amministrazioni comunali e le regioni Lazio, Toscana e Piemonte, al tribunale di Londra. I precedenti indicano che il giudice darà l'autorizzazione a procedere. Lo scorso maggio, Dexia Crediop e Depfa hanno ottenuto che si tenesse il processo contro la città di Pisa e lo scorso ottobre un giudice di Londra ha accettato la denuncia presentata da UBS contro un comune tedesco.
Da un punto di vista strettamente legale, le banche sono protette da clausole nei contratti stipulati, che indicano Londra come sede di giurisdizione esclusiva. Inoltre, la legge europea non permette ai tribunali di uno stato membro di intervenire nelle controversie aperte in un altro stato membro. Però esiste una legge superiore, che è quella costituzionale, che protegge il Bene Comune basandosi sul diritto naturale. Questa legge superiore condanna le pratiche basate sull'usura e sul gioco d'azzardo, che costituiscono la vera natura dei derivati. Perciò, sui derivati italiani si gioca una partita legale cruciale per il futuro dell'Europa.
L'intelligence italiana ha già suonato il campanello d'allarme sui 32 miliardi di derivati degli enti locali, classificando il problema come una minaccia alla sicurezza nazionale. (cfr. SAS 01/11).
Benché il caso italiano sia quello più rilevante in Europa, altri casi legali stanno emergendo nelle altre nazioni. In Germania, in un caso che potrebbe aprire la strada a numerosi altri ricorsi, la Caritas ha sporto denuncia contro Kommerzbank per frode. La banca aveva consigliato alla sede di Francoforte dell'ente umanitario di investire mezzo milione di euro in cartolarizzazioni ad alto rischio che contenevano mutui subprime americani, sostenendo che si trattasse di un investimento sicuro come un titolo di stato. La Caritas ha perso la metà dei soldi investiti.