Home page

domenica 27 febbraio 2011

Libia: rischio propaganda sulla verità

(Il Giornale) - Ma quanti sono i morti in Libia? Mille, duemila o diecimila? E quante città sono cadute in mano ai rivoltosi? Due, tre, dieci? La crisi libica è densa di notizie tanto sensazionali e sconvolgenti quanto di dubbia attendibilità. Siamo tutti inorriditi apprendendo che Gheddafi avrebbe ordinato all'aviazione di bombardare la folla, circostanza che però il vescovo di Tunisi non conferma, al pari di altri testimoni. Le comunicazioni telefoniche dalla Libia sono difficilissime e quelle online interrotte; però ogni giorno sbucano filmati drammatici pro o contro il regime. Abbiamo visto quello sulle fosse comuni, che però tanto comuni non sembravano. Erano, piuttosto, sedici buche nel terreno come quelle che vengono scavate in ogni cimitero. La tv di Tripoli, invece, trasmette le immagini di migliaia di libici esultanti in piazza per dimostrare che il Colonnello è amato e ancora saldamente al potere. Chi mente? Inutile, chiederselo, mentono tutti. Come in ogni crisi. I filmati con cadaveri o distruzioni possono essere riferiti a fatti avvenuti anni fa o in altri Paesi e basta stringere il campo dell'obbiettivo per far sembrare poche decine di persone in piazza una folla quasi oceanica.
Ricordate il Cormorano nero della prima guerra del Golfo, simbolo della spietatezza di Saddam che - ci dissero allora - aveva aperto gli oleodotti? Era un falso. E la strage di Timisoara in Romania in occasione della rivolta contro Ceausescu? Mai esistita. Ai tempi dell'ultima guerra in Irak, i media diffusero una quantità gigantesca di frottole, di cui però nessuno si accorse in tempo reale. Anzi, quasi nessuno. Le poche voci dubbiose di solito finiscono travolte dall'impeto delle breaking news, dalle notizie dell'ultima ora e dunque da una concitazione travolgente. Impressionare o stordire. Trascinare o deprimere. Esaltare o impaurire. Quel che conta è l'effetto immediato. Le guerre moderne si vincono anche, anzi soprattutto, sui media.
---------------------------------------------

(Il Giornale) - Lo storico Angelo Del Boca profondo conoscitore del Paese «Quella spiaggia è un vecchio cimitero. E dove sono i corpi?»
«Fosse comuni? Diecimila morti? Cinquantamila feriti? Bum!» Angelo Del Boca, 85 anni, borbotta incredulo al telefono. Scrittore, partigiano, storico, «biografo» di Gheddafi (ci ha fatto un libro di 400 pagine) Del Boca fu il primo a denunciare le atrocità compiute dalle truppe italiane in Libia quando su quello «scatolone di sabbia» sventolava il tricolore.
Niente fosse comuni, dunque.
«Ma no, ma no. Le immagini che tutti abbiamo visto sono quelle del cimitero di Asiah, a ovest, là dove finisce la città. É una zona che conosco bene, come tutta Tripoli, del resto. Ma poi, a ben pensare, che cosa abbiamo visto? Dei buchi, delle fosse; e delle persone che ci stavano accanto. E i corpi? I cadaveri? Chi li ha visti quelli?».
Eppure il bilancio è bell'e che fatto. Diecimila morti, cinquantamila feriti... Tutta propaganda?
«Certamente chi ha messo in giro queste cifre punta a rendere peggiore l'immagine di Gheddafi. E Dio sa se ce n'è bisogno. Ma ci rendiamo conto di quel che vuol dire cinquantamila feriti? Non basterebbero tutti gli ospedali del nord Africa. Son balle, creda. Io ho tre testimoni oculari di cui mi fido. Persone indipendenti, serie, come l'avvocato Anwar Fekini, laureato alla Sorbona, nipote di quel Mohammed Fekini che fu capo della resistenza in Tripolitania dal 1911 al 1931. Bene. Fekini parla di mille, duemila morti».
Che fine farà il colonnello Gheddafi?
«Mah. Fino all'ultimo ho sperato che uscisse di scena come il tunisino Ben Ali, come Mubarak, con la sua corte e il suo bottino. Ma Gheddafi non è un vigliacco. É un criminale, ma ha una sua corrusca grandezza».
Un personaggio shakespeariano...
«Proprio così. Un uomo di grande intelligenza, colto. Sì, mi spiace che il colonnello abbia spinto la sua avventura umana verso un finale così catastrofico. É in un vicolo cieco. Ma non si arrenderà. Si farà ammazzare».
La sua imbarazzante megalomania, gli occhiali da diva, le amazzoni, il guardaroba che oscurava quello di Michael Jackson finiranno per far dimenticare i meriti dell'uomo.
«Che pure ci sono. La Libia era un'aggregazione di 130 clan. Fu lui a farne una nazione, cacciando gli americani e gli inglesi, e da ultimo gli italiani».
Poi la convinzione di essere appena un gradino sotto il Padreterno lo travolse. Come Saddam Hussein.
Due destini speculari.
«Come il rais di Bagdad, anche Gheddafi sognava di diventare il Califfo, il gran capo di tutti gli arabi. É un sogno che ha coltivato a lungo, finchè nel 2000 si rese conto che non era realizzabile».
Fu allora che si inventò l'Unione Africana.
«Chiamò a raccolta 54 capi di stato e di governo, si fece nominare "re dei re", come il Negus. Certi eccessi, nelle posture e nell'abbigliamento, erano diretti a quel pubblico».
Che vuole il leader rutilante, irraggiungibile, una specie di visione onirica in technicolor.
«Gheddafi pensava a una politica estera, a un'economia, a un esercito in comune. Un criminale, ripeto. Un criminale che negli anni Sessanta e Settanta mandava i suoi sicari in giro per l'Europa a eliminare i suoi nemici. Ma non uno sciocco, creda».
Lei gli ha parlato più volte. Che cosa pensava del suo mitico libro verde, l'Illuminismo in salsa islamica?
«Gli feci la domanda. Mi rispose a bruciapelo. "Onestamente - disse - è stato un fallimento. La Libia è un paese nero, fosco, niente affatto verde"».

Nessun commento:

Posta un commento