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giovedì 12 maggio 2011

Il super-governatore che vieta i titoli tossici

(Il Sole 24 ore) - Riad Salameh ha avuto ancora ragione. L'uomo alla guida della Banca centrale del Libano dal '93, eletto da Euromoney e The banker magazine miglior governatore centrale del mondo per tre volte e per due volte miglior governatore del mondo arabo, ha dalla sua i numeri. Il settore bancario del Libano continua a registrare performance di tutto rispetto. Nel mezzo delle rivolte arabe Salameh, 61 anni, non ha timori per il futuro. Nel 2003 decise di vietare alle banche libanesi di acquistare titoli derivati, creando regole draconiane per preservare i depositi. Fu giudicato un reazionario. A torto.
Oggi si ripresenta il pericolo di nuovi derivati, come gli Etf, potenzialmente tossici. Ha preso qualche misura?
In Libano le banche non possono acquistare Etf con i loro fondi. Ogni derivato deve essere approvato alla Banca centrale, anche se venduto solo ai clienti. Di recente abbiamo rafforzato le misure: ogni collocamento privato, anche per meno di 20 clienti, deve essere da noi autorizzato prima di essere eseguito dai clienti.
Ma nel resto del mondo quali sono i pericoli reali?
Il problema degli Etf è che non esiste un mercato regolato. Non siamo in grado di sapere se questi strumenti siano interamente coperti, o se nascondano forme di indebitamento. E nessuno può esercitare un controllo effettivo. Specie per le commodity, come l'oro. Oggi, con i tassi d'interesse quasi a zero e con l'attuale spesa monetaria in Europa e negli Usa, le banche stanno cercando liquidità, creando entrate dalla vendita di Etf o altri derivati in un periodo in cui regole e controlli non sono sufficienti.
Torniamo al Libano. Anche nel 2010 le banche hanno registrato perfomance eccellenti.
Quali sono le ragioni?
Le nostre banche devono allocare i loro fondi nel seguente modo: un terzo al credito per il settore privato, un terzo alla Banca centrale e un terzo deve restare liquido. Una regola che comunque ci ha permesso l'anno scorso di registrare un aumento del 20% dei crediti al settore privato. Abbiamo dunque una solida e intatta base per una crescita futura.
Eppure l'Fmi ha stimato una frenata del Pil al 2,5% e un aumento del già alto debito pubblico.
Prudenza. La Banca centrale annuncia le stime a metà anno a causa della volatilità del nostro Paese. L'Fmi potrebbe rivedere questi dati. Lo scorso gennaio c'è stato un brutale cambiamento nel Governo, scatenato dalle dimissioni di alcuni ministri. E i mercati hanno reagito negativamente. I dati relativi a febbraio e marzo dimostrano però che la crescita dei depositi è ripresa, che la bilancia dei pagamenti è tornata in attivo. L'economia è rallentata, ma quando il Governo sarà costituito le cose cambieranno. Certo, la crescita del settore bancario sarà più modesta. Ma ci aspettiamo un aumento dei deposti del 5-7%, sufficiente per coprire le necessità private e pubbliche del Paese.

domenica 17 aprile 2011

Il caso Islanda

In Islanda la popolazione ha di nuovo votato NO al referendum indetto sabato scorso dal governo per il caso Icesave. Gli islandesi, per la seconda volta, hanno espresso la loro più assoluta opposizione all'accordo sul rimborso di 3,9 miliardi di euro chiesto dalla Gran Bretagna e dall'Olanda in seguito al fallimento della Icesave, società controllata dalla Landsbanki. Tutti e sei i distretti elettorali islandesi hanno votato per il "No", con una percentuale nazionale del 60%, in calo dal 93% del gennaio 2010,dimostrato così di voler respingere, ancora una volta, la proposta del governo, composto da Verdi e Social-Democratici.
Per chi non lo ricordasse, l'economia islandese è stata pesantemente colpita dalla prima onda della grande crisi finanziaria che si è abbattuta sull'isola e sul mondo intero nel 2008. Sono cadute immediatamente le due banche principali islandesi, che sono state subito nazionalizzate.
Icesave, una specie di conto arancio gestito dalla principale banca islandese (Landsbanki per l'appunto), ha sostanzialmente chiuso i battenti, essendo a quel punto incapace di rimborsare i clienti. Così, i risparmi di molti inglesi ed olandesi, i principali clienti di Icesave, sono rimasti congelati per un bel po'. Il governo inglese, per evitare spiacevoli proteste in casa propria, è intervenuto ed ha garantito i fondi dei cittadini inglesi, salvo poi presentare la nota spese all'Islanda.
Ed il nuovo governo islandese si è guardato bene dal prendere una decisione. Ha invece chiamato i cittadini alle urne per ben due volte in 13 mesi per votare a favore o contro un'ipotesi di ristrutturazione (e restituzione) del debito. E per la seconda volta in 13 mesi, il nuovo referendum - che prevedeva una lunga e comoda spalmata della restituzione fino al 2046 - ha visto il consueto verdetto dalle urne: NO.
Anche perché -  è giusto precisarlo -  in fondo Icesave è quasi interamente sostenuta, nei suoi depositi, da cittadini inglesi ed olandesi, non certo da cittadini islandesi. Quindi, se per caso non si paga, non sono certo gli islandesi a trovarsi carta straccia tra le mani. Da qui lo scontro ideologico sulla restituzione di un debito dovuto più alla speculazione straniera che non ad un'intensa opera di finanziamento dell'economia nazionale.
Il voto ha riflesso la diffusa convinzione che i negoziatori del governo non siano stati abbastanza vigorosi nel perorare il caso legale islandese. E' vero, è stato ottenuto un termine di pagamento più lungo per gli esborsi di Icesave, ma il modo in cui l'Islanda otterrà le sterline e gli euro, malgrado la propria economia sia in caduta libera, è ancora da determinarsi e tutto questo minaccia il crollo del tasso di cambio della corona islandese. Ed una simile ipotesi non è semplicemente considerabile, perché la conseguenza di un eccessivo indebolimento della valuta islandese comporterebbe la svendita del patrimonio nazionale agli speculatori stranieri. Insomma, si rischierebbe un bis in idem.
L'accordo proposto ha effettivamente abbassato il tasso di interesse dal 5,5% al 3,2%, ma ha comportato che gli interessi per il salvataggio decorressero dal 2008. Ha persino incluso la quota d'interessi-extra che convinsero gli investitori stranieri a mettere i propri fondi in Icesave. Gli islandesi consideravano questi interessi-extra come una compensazione per i rischi che furono presi dagli investitori e per questa ragione dovrebbero esser andati persi e quindi non conteggiati. Il che non è del tutto illogico.
Ora, che ogni tentativo di riconciliazione è andato fallito, la cosa probabilmente finirà in tribunale sotto l'ala dell'EFTA, European Free Trade Agreement. E poi sarà tutto da vedere cosa succederà se mai il tribunale condannerà l'Islanda a pagare. Frosti Sigurjónsson, portavoce del "No", ha dichiarato che "il rischio di accettare questo accordo è molto più grande del rischio di affrontare la cosa in tribunale, che in fondo è un nostro diritto". Così, la questione "Icesave" andrà in tribunale. Si tratta dunque di capire come andrà a finire.
Intanto par di capire che Gran Bretagna e Paesi Bassi faranno davvero la parte del leone sui resti del cadavere di Landsbanki, giacché secondo il diritto europeo "il costo di finanziamento di tali schemi deve essere supportato, in via di principio, dagli stessi istituti di credito". Questo non era, tuttavia, quello che volevano gli islandesi prima del voto; i poveri isolani avevano semplicemente intenzione di salvare la loro nazione da un'obbligazione senza fine, se si fossero iscritte le perdite delle banche all'interno dei paragrafi del bilancio pubblico, senza un piano per determinare il modo in cui l'Islanda avrebbe ottenuto i soldi per pagare. Nulla di più, ma neanche nulla di meno.
Il primo ministro Johanna Sigurdardottir ha affermato che il voto può avviare "un caos economico e politico", ma anche pagare può portare a queste conseguenze. L'anno appena trascorso ha visto la disastrosa esperienza di Grecia, Irlanda e Portogallo dopo aver portato i debiti dello scriteriato settore bancario all'interno del bilancio pubblico.
È difficile aspettarsi che ogni nazione sovrana imponga un decennio o più di depressione alla propria economia, visto che le leggi internazionali permettono a ogni stato di agire in difesa dei propri interessi vitali. Agire diversamente equivarrebbe a decidere di sottomettersi ai voleri dei banchieri, mandando al macello intere generazioni con i loro diritti civili,sociali e politici, presenti e futuri.
I tentativi dei creditori di persuadere le nazioni a salvare le loro banche con il debito pubblico è stato nei fatti, fino a questo momento, un esercizio di pubbliche relazioni. Gli islandesi hanno visto il successo ottenuto dall'Argentina da quando ha imposto un taglio drastico alle pretese dei propri creditori. Hanno anche visto la distruzione economica dell'Irlanda e della Grecia per aver cercato di pagare oltre le proprie possibilità. Hanno dunque ragionevolmente scelto di optare per una linea di difesa ad oltranza degli interessi nazionali. E dovrebbero essere presi ad esempio per questo.
 La storia recente ci racconta infatti di svariati episodi dai quali si può imparare molto. I creditori dell'Irlanda, ad esempio, non le diedero di certo buoni consigli quando le suggerirono che pagare i fallimenti delle proprie banche non avrebbe sprofondato l'economia in una crisi senza fine.
L'esperienza irlandese è un avvertimento, un esempio per gli altri paesi di cosa accade quando ci si fida delle previsioni ultra-ottimistiche fatte dai banchieri centrali, i veri signori oscuri di queste manovre tutte dirette all'affossamento degli stati sovrani.
Nel caso dell'Islanda, nel novembre del 2008 lo staff del Fondo Monetario Internazionale aveva ipotizzato che la somma di debito pubblico e privato alla fine del 2009 sarebbe arrivata al 160% del PIL, ma evidenziò che un deprezzamento del tasso di cambio del 30% avrebbe spinto il rapporto al 240% del PIL, e ciò sarebbe stato "chiaramente insostenibile". Ma il più recente bollettino sempre del FMI, datato 14 Gennaio 2011, riporta il rapporto debito pubblico/PIL  per la fine del 2009 al 308% e stima lo stesso rapporto al 333% per la fine del 2010, prima ancora di mettere nel conteggio i debiti di Icesave (!!). Insomma, delle due l'una: o gli analisti finanziari del Fondo Monetario sono degli incompetenti strapagati o, al contrario, sono particolarmente abili nel manipolare i loro numeri e le loro statistiche per rispondere ad esigenze di politica economica. Ai posteri l'ardua sentenza.
Il problema principale dell'obbligazione dell'Islanda con la Gran Bretagna e con i Paesi Bassi, a parte ciò che verrà recuperato da Landsbanki (con l'aiuto dell'Ufficio Anti-Frodi britannico), è che i soldi dovranno essere pagati attraverso il pagamento di quanto ottenuto grazie all'esportazioni. Finora, tuttavia, non ci sono stati accordi tra Gran Bretagna e Paesi Bassi per decidere quali merci e servizi islandesi dovranno essere forniti come forma di pagamento. Insomma le carte sono sul tavolo, ma alcune sono scoperte, altre no.
Si dovrebbe invece auspicare la costituzione di un gruppo di esperti che immagini e definisca la soluzione più solida possibile: nessuna nazione sovrana può infatti adeguarsi all'imposizione di una generazione di austerità finanziaria, di ristrettezze economiche e di emigrazione forzata del lavoro per pagare per i fallimentari esperimenti neo-liberisti che hanno fatto sprofondare così tante economie europee. Si spera che la dignità mostrata dal popolo islandese illumini quanti, oggi, rischiano di trovarsi a breve nelle medesime condizioni.
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sabato 16 aprile 2011

Italia-Europa: si allarga il fronte degli scettici

(Movisol) - "È l'Europa, bellezza", direbbe Humphrey Bogart agli italiani sorpresi di essere stati lasciati soli di fronte all'ondata di immigrazione dal Nord Africa. Il fatto è che l'Europa non ha una politica sulla crisi africana al di là dei respingimenti, e assiste inerme all'aggravarsi della crisi su tutto il fronte sud del Mediterraneo. In questo contesto, è naturale che si cominci a ragionare sull'opportunità di rimanere in un sistema, quello dell'Euro e dell'UE, che si sta rivelando una perdita netta su tutti i fronti. Non deve destare scandalo che Berlusconi dica "o l'UE è una cosa concreta o è meglio separarsi". Lo scandalo è che sia solo lui, e che probabilmente abbai per non mordere.
Comunque, quello che solo pochi mesi fa era un tabù, e veniva denunciato solo dal movimento di LaRouche o da voci isolate come il prof. Savona, ora viene discusso sui media. Il 5 aprile, il vicedirettore di Libero, Franco Bechis, ha chiesto al governo italiano di uscire dall'euro e dall'UE, in un articolo intitolato "Lasciamo l'Europa, ci costa e non ci aiuta".
"Lasciati soli - scrive Bechis - davanti all'invasione degli immigrati. Abbandonati quando la speculazione finanziaria internazionale ha fatto sentire il morso sul debito pubblico italiano. Bacchettati però quando si tenta di difendere le aziende nazionali come altri paesi hanno fatto tranquillamente (...) (...) senza le reprimende di Bruxelles. E con le mani legate - talvolta perfino con la camicia di forza - quando provi a balbettare qualcosa di fisco o di sviluppo.
"Ma a che serve l'Unione europea per l'Italia? Da anni ci sentiamo ripetere che se l'Italietta non avesse aderito al trattato di Maastricht e alla moneta unica, saremmo tutti finiti gambe all'aria rischiando il fallimento del paese. Eppure dopo tanti anni i risultati ottenuti sono evidenti, e portano tutti il segno meno. L'Italia cresce di meno da quando è entrata nell'euro. La disoccupazione invece è salita progressivamente e inesorabilmente. Il divario fra Nord e Sud si è allargato: la spaccatura del paese è più evidente, con una parte che si sente attratta e alla pari con la locomotiva tedesca e l'altra parte destinata a sprofondare. Il debito pubblico è cresciuto esponenzialmente ed è diventato perfino più fragile di prima. Siccome l'unione monetaria è stata realizzata imponendo una moneta unica a tutti e vincoli stretti ai paesi più deboli, ma non si è fatta carico dei guai comuni (le ricchezze sono state unificate, però a ciascuno è restato il suo debito), i vantaggi per l'Italia sono stati assai piccoli. Sostanzialmente solo due: meno inflazione (ma soprattutto deflazione, che non è gran vantaggio per l'economia) e denaro meno caro, anche se ormai viene concesso con il contagocce proprio grazie alle regole internazionali.
"Tutto il resto è peggiorato. In modo così sensibile da aprire per la prima volta la discussione-tabù: e se fosse meglio uscire dall'Europa di Maastricht seguendo la Gran Bretagna che non ci è mai entrata? Che sia meglio ha osato dirlo nell'autunno scorso un economista di grido come il professore Paolo Savona, che ha addirittura implorato l'Italia di liberarsi «dal cappio europeo che si va stringendo al collo», sostituendo «il poco dignitoso vincolo esterno con una diretta responsabilità dei gruppi dirigenti. Si aprirebbe così la possibilità di sostituire a un sicuro declino un futuro migliore attraverso il re-impossessamento della sovranità di esercitare scelte economiche autonome, comprese quelle riguardanti le alleanze globali».
"Di quelle parole Savona non è affatto pentito, e, anzi, è ancora più convinto assistendo ai fatti di queste settimane. Di fronte a Libia, Tunisia, e all'incendio del Mediterraneo l'Europa politica ha brillato per assenza. Quella militare proprio non esiste, e ognuno procede in ordine sparso. L'ondata migratoria che si prepara non sembra interessare Bruxelles: l'Europa è composta in maggioranza da paesi che credono di non venirne toccati, e quindi è caso che dovranno sbrogliarsi da soli Grecia, Spagna, Francia e soprattutto Italia. Quel fantoccio di polizia delle frontiere (con sede a Varsavia) che è Frontex si è limitata a inviare una navetta rumena e due piccoli aerei per affrontare quello che giustamente Silvio Berlusconi ha definito lo «tsunami umano». I fatti di questi giorni hanno definitivamente chiarito - se mai ce ne fosse stato bisogno - che in caso di emergenza l'Italia deve cavarsela organizzativamente e finanziariamente da sola. L'Europa non le serve. Invece Bruxelles sarà più rapida di un falco quando si tratterà di fermare le norme per proteggere Parmalat, ma soprattutto gli allevatori italiani, dalla posizione dominante di Lactalis. Come sarà fulminea a fermare sul nascere qualsiasi politica industriale o fiscale passi mai per la testa dei governanti italiani. Uscire dall'euro è forse rischioso sul breve, e un po' di terremoto per forza lo provoca. Ma potersi riappropriare delle leve del proprio governo e decidere da soli davvero non ha prezzo. E potrebbe diventare la vera occasione per l'Italia".

lunedì 11 aprile 2011

Tsunami Giappone: le vittime e i danni avrebbero potuto essere evitati.

(E.I.R. Strategic Alert) - Gli scienziati giapponesi avevano registrato segnali precursori di un forte terremoto già il 1 marzo, dieci giorni prima che si verificasse. Se ci fosse stato un ente governativo preposto, avrebbero potuto essere disposte misure di evacuazione e lo tsunami avrebbe mietuto molte meno vittime. Inoltre, i danni alla centrale di Fukushima sarebbero stati ridotti al minimo. L'allarme non avrebbe fermato lo tsunami e impedito la distruzione delle pompe, ma avrebbe permesso di spegnere i reattori dieci giorni e non dieci minuti prima dell'arrivo dell'onda, garantendo il regolare raffreddamento.
L'EIR ha appreso questa notizia dal prof. Pier Francesco Biagi, uno dei principali ricercatori al mondo sui precursori dei terremoti, il quale ha annunciato che i suoi colleghi giapponesi presenteranno i dati alla Assemblea Generale della European Geosciences Union, iniziata il 3 aprile a Vienna. Non è chiaro se gli scienziati giapponesi abbiano avvisato il governo e questo non abbia reagito, oppure se l'allarme abbia incontrato il solito scetticismo della comunità scientifica.
Gli scienziati italiani stanno attualmente raccogliendo e analizzando dati raccolti da una rete di trasmettitori sparsi per il mondo, già in funzione per altri usi. I dati riguardano l'aumento di attività elettromagnetica in anticipo sui terremoti, un fenomeno che permette già di prevedere il sisma e la regione dell'epicentro con una probabilità dell'80%.
I colleghi giapponesi del prof. Biagi disponevano di indicazioni simili già il 1 marzo, sulla base dei dati raccolti da un laboratorio di fisica del neutrino.
Biagi è d'accordo sulla proposta, avanzata da Lyndon LaRouche, di aumentare i finanziamenti dell'US National Earthquake Hazards Reduction Program e soprattutto di coinvolgere la NASA. Lo scienziato italiano suggerisce però di correggere l'errore di impostazione iniziale, quando fu stabilita una scadenza decennale per valutare i risultati della ricerca sulla prevenzione dei sismi. Non si può dire "tra dieci anni analizzeremo i risultati e sulla loro base decideremo se continuare i finanziamenti". Può darsi che nell'arco di dieci anni si raccolgano dati insufficienti, mentre bastano tre anni di densa attività sismica per raccoglierne in abbondanza.
Se fosse il capo della NASA e potesse decidere quali programmi finanziare sui precursori sismici, Biagi inizierebbe "un programma ben mirato di nano satelliti". Il primo satellite costerebbe un milione di euro, ed ogni satellite successivo solo 600 mila euro. In realtà si tratta di spiccioli, se paragonati alle cifre colossali sborsate per i salvataggi bancari, ma nessun governo al mondo è stato finora disposto a stanziarli. Gli italiani hanno provato, alcuni anni fa, a promuovere un programma europeo, ma non ci sono riusciti. I governi preferiscono finanziare altri programmi, come "l'accoppiamento degli orsi polari", ha osservato ironicamente.
Ci troviamo definitivamente in una fase di alto livello di attività sismica, ha affermato il prof. Biagi, e ovviamente i cicli sismici sono correlati all'attività solare.
C'è solo una nazione che ha mai mandato in orbita un satellite specificamente per la ricerca sui terremoti, ed è la Francia col satellite Demeter, i cui dati sono stati "interessantissimi".
La ricerca sui precursori viene attualmente svolta in pochi paesi, e questi sono, in ordine di dimensione dei programmi, Giappone, Italia, Grecia e Russia. Gli scienziati dei rispettivi paesi si incontrano regolarmente e coordinano la loro attività. Il problema è che nessuno di questi programmi ha finanziamenti pubblici, e i ricercatori devono arrangiarsi presso i privati, a volte con soluzioni ingegnose.
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lunedì 4 aprile 2011

Sistema finanziario: anche il Sole ci chiede di passare ad un modello creditizio

La catastrofe naturale che ha colpito il Giappone lancia all'umanità intera una sfida storica.
Infatti, il terremoto giapponese dell'11 marzo è solo il più eclatante di una ben più ampia sequenza che ha visto: il 22 febbraio un terremoto di magnitudo 6.3 della scala Richter distruggere completamente la Christchurch in Nuova Zelanda, ed il 27 febbraio un terremoto di magnitudo 8.8 colpire la Cina.
Secondo autorevoli scienziati russi, inglesi, peruviani, ecc. vi sarebbe una relazione tra l'attività solare ed i terremoti terrestri. E' prevista un'intensissima attività solare fino al 2013 e questa potrebbe destabilizzare la “cintura di fuoco” del Pacifico che va approssimativamente dalla Nuova Zelanda, attraversa il Giappone, raggiunge l'Alaska, per poi scendere fino alla California ed a sud fino al Cile.
La scienza non è ancora in grado di spiegare questa relazione e dunque, sia la capacità previsionale che di prevenzione sono limitate.
La sfida che ci lanciano il nostro sistema galattico e quello solare giunge in un periodo storico che ci obbliga a parlare di un tipico caso di ironia della storia. Infatti, alla luce di un sistema politico-economico occidentale vittima del virus monetarista, per cui le nazioni potrebbero spendere solo ciò che hanno, oramai depredate della loro sovranità monetaria trasferita nelle mani delle banche centrali indipendenti, l'elevato rischio di grandi cataclismi che corre una buona parte dell'umanità, costringerà i nostri governanti ad annunciare: “Cari concittadini, dovremmo finanziare i nostri scienziati per comprendere meglio la relazione tra il nostro sistema terrestre e quello solare, per poter salvare molte vite umane, ma purtroppo non abbiamo i soldi con cui pagarli e dunque non possiamo fare altro che sperare che le previsioni fatte non si verifichino!”.
Il sistema americano di economia politica, così come fu in particolare applicato da Franklin Delano Roosevelt, prima e durante la seconda guerra mondiale, lanciò una provocazione simile a quella che oggi ci pone la natura: una nazione durante una stagione di guerra, non si pone problemi di bilancio, ma si affida al credito governativo per la produzione di materiale bellico, a prescindere dalle condizioni delle casse statali; altrimenti, dovrebbe comunicare alla propria popolazione che non resta altro che attendere che il nemico la conquisti! Allora, per l'autentico sistema americano di economia politica questo approccio deve essere utilizzato a maggior ragione in tempi di pace, per progetti funzionali al benessere della gente.
Dunque, ironia della storia, è il nostro stesso sistema solare che ci offre lo spunto per uscire dall'ingiusto ed anti-progressista sistema speculativo monetarista, per passare ad un sistema creditizio che ridia una reale sovranità economica agli stati. In realtà, sarebbe dovuto bastare il paradosso venuto a galla con la recente crisi finanziaria – lungi dall'esser terminata – manifestatasi in modo evidente dal 2007, per cui dopo decenni di politiche nazionali di austerità con contrazione della spesa per la sanità, l'istruzione, le infrastrutture, la giustizia, le pensioni, tutto d'un tratto, con la crisi delle banche “troppo grandi per poter fallire”, in soli tre anni si è proceduto a salvataggi, per cifre decine di volte superiori ai ricavati di tutte le privatizzazioni dell'impresa pubblica avviate dagli anni '70 in poi; conseguentemente, con i bilanci nazionali in situazioni ancor più precarie rispetto al pre-crisi, le popolazioni si sono dovute sentir dire: “Ed ora dobbiamo tagliare ancor di più la spesa per sanità, pensioni, scuola, infrastrutture!”. Così, non essendo bastato tutto ciò per farci riaccendere il lume della ragione, è la natura stessa che oggi invita l'umanità ad uscire da questo sistema che altro non può esser definito che oligarchico, per rimettere in piedi sistemi autenticamente repubblicani.
L'umanità, attraverso gli stati sovrani, oltre che di un sistema di infrastrutture e di abitazioni più congeniali a più elevati standard di civiltà, ha necessità dunque di esprimersi maggiormente nella scienza, aumentare di uno/due ordini di grandezza il numero dei ricercatori, e finanziare la comunità scientifica per indagare e comprendere, per esempio, le relazioni tra sistema galattico, solare a terrestre. Questa sfida sgombera così il campo da varie frodi concettuali che le teorie economiche liberiste-monetariste e l'ambientalismo anti-scientifico hanno contribuito a diffondere nella società negli ultimi quarant'anni: 1) è attraverso l'economia fisica che possiamo misurare l'economia in modo funzionale alle necessità ed alle aspirazioni di benessere dell'umanità, e non attraverso sistemi contabili di bilancio e sciocchi parametri come quelli imposti da Maastricht o dalle agenzie di rating; 2) l'esplorazione dello spazio, non è un qualcosa di innaturale, dispendioso ed inutile, piuttosto referenzia la progressiva evoluzione del genere umano nell'esercizio della sua naturale capacità cognitivo-creativa che, come tutte le fonti di conoscenza, è necessaria per l'evoluzione e la salvezza dell'uomo.
Si rende dunque necessario quanto prima il passaggio ad un nuovo ordine finanziario internazionale centrato sulla sovranità creditizia di ogni singola nazione, altrimenti, oltre ad assistere a continue rivolte di popolo, non potremo rispondere ai vari disastri che la natura ci preannuncia, non già per il “troppo progresso”, ma per la pochezza, per il suo ritardo in tanti settori e perché, in fondo, il progresso non è “mai abbastanza”.

Claudio Giudici

Nord-Africa: la crisi ha il suo grilletto nel pacchetto di salvataggio UE di maggio

Firenze, 30 marzo 2011 - In questi giorni il dibattito è concentrato sulla crisi nord-africana ed in particolare su quella libica. Sedicenti esperti ed osservatori improvvisati, solo oggi si accorgono di quanto dispotico fosse il regime di Gheddafi; differentemente, l'uomo della strada il più delle volte comprende quanta ipocrisia vi sia dietro tale semplicistica lettura, visto che il Nord-Africa, come gran parte delle aree sottosviluppate del pianeta, è guidato da svariati decenni da dispotici governi fantoccio.
La vera domanda che in questo momento dobbiamo porci, è perchè quello che è stato definito “il 1989 del Nord-Africa” scoppi proprio oggi.
È da rifiutare, in quanto al massimo secondaria, la tesi per cui siano stati i moderni mezzi di comunicazione, internet e social network, ad aver spinto le popolazioni nord-africane a scendere in piazza. Infatti, nonostante l'assenza di strumenti di osservazione delle condizioni di vita del resto del mondo, di rivoluzioni è ricca la storia. Ciò a cui invece stiamo assistendo è un processo da "sciopero di massa" (così come lo intese Rosa Luxemburg), che contagia aree sviluppate ed in via di sviluppo, ma che in ogni caso si trovano sotto un regime di mercato deregolamentato, senza alcuna forma di protezione a salvaguardia né del tenore di vita delle popolazioni né delle esigenze di vita primarie.
Altrettanto, l'idea per cui sarebbe l'aumento della domanda proveniente, in particolare dalla Cina, ad aver fatto scoppiare l'attuale fase iperinflazionistica sulle materie prime e sui generi alimentari, è priva di ogni fondamento, in quanto non vi è alcuna sistematica relazione tra tali fattori (proprio gli ultimi anni di crisi economico-finanziaria globale ce lo dimostrano). Infatti, l'aumento della domanda proveniente dalle economie in via di sviluppo è stato “neutralizzato” dal crollo della domanda delle economie avanzate, tanto da far temperare o addirittura rendere negativa (come nel 2009) la crescita del p.i.l. globale. Nonostante ciò, i prezzi delle materie prime e dei generi alimentari sono progressivamente cresciuti in seguito a vere e proprie scorribande inflazionistiche, da attribuire esclusivamente a fenomeni speculativi generati dall'enorme massa di liquidità che le banche centrali hanno messo a disposizione delle banche d'affari. Infatti, dall'adozione nel maggio 2010 da parte dell'Unione Europea del mega pacchetto di salvataggio da quasi un trilione di euro, il paniere cerealicolo è cresciuto di oltre il 50%, il paniere metallifero è cresciuto di circa il 43%, e il paniere dei frutti esotici è cresciuto di quasi il 120%! Lo stesso fenomeno è possibile rilevarlo in seguito ai mega salvataggi adottati dalla Federal Reserve americana.
Paul Farrell, ex guru degli investimenti in Morgan Stanley, ha scritto il 15 febbraio su MarketWatch che "il governatore della Federal Reserve Ben Bernanke è l'essere umano più pericoloso sulla terra, molto più pericoloso di Hosni Mubarak, il dittatore trentennale dell'Egitto. Bernanke è alla guida di una dittatura monetaria che provocherà l'imminente terzo crac del XXI secolo".
Così, la liquidità costantemente riversata dalle banche centrali USA, UE, inglese e giapponese nel sistema finanziario, alimenta la speculazione sulle derrate alimentari e sulle materie prime. L'UE stessa ha pubblicato le seguenti cifre: gli "investimenti" nei mercati delle commodities erano 15 miliardi di dollari nel 2003, essi sono schizzati a 300 miliardi nel 2008 e da allora continuano a salire. Alla borsa mercantile di Chicago, l'85% degli operatori si limita esclusivamente a speculare sui prodotti finanziari senza avere nessuna attività reale nel settore alimentare.
Nei giorni in cui le popolazioni del Mediterraneo del Sud e del Sud-ovest asiatico vanno ribellandosi nei confronti dello stato d'indigenza a cui sono costrette, la Commissione di Inchiesta sulla Crisi Finanziaria, creata dal Congresso USA per stabilire le cause del crac finanziario del 2007-2008, ha fatto la storia. Il suo rapporto, noto come Rapporto Angelides, fornisce un resoconto straordinariamente veritiero del processo decennale di deregulation bancaria, "shadow banking" e speculazione in derivati finanziari che ha portato al crac globale. Gli stessi meccanismi che hanno fatto scoppiare la più grave crisi finanziaria dal 1929, sono oggi la causa della crescita iperinflazionistica dei prezzi che hanno violato quell'equilibrio che consentiva lo stato di sussistenza delle popolazioni, entrate in crisi in questi primi mesi del 2011.
Invero, già nel 2008 almeno 33 Stati furono interessati da fenomeni di "sciopero di massa", di protesta popolare, con livelli dei prezzi anche allora in forte e simile ascesa.
L'economista americano Lyndon LaRouche, che da anni ricostruisce il processo di progressiva disintegrazione dell'economia mondiale a favore dei processi speculativi, ha rivolto un appello per mettere fine alla speculazione sul cibo, che è stato echeggiato negli ultimi due anni dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Ora sembra che si stiano svegliando anche i suoi colleghi europei. Un avvertimento simile è giunto dal ministro tedesco dell'Agricoltura, Ilse Aigner, durante il suo discorso di apertura alla fiera agricola annuale a Berlino, il 20 gennaio: "Le rivolte per il cibo e la destabilizzazione dei paesi del Nord Africa", ha dichiarato, "indicano la necessità di regolamentare e proteggere i beni agricoli dagli speculatori". La signora Aigner e i ministri dell'Agricoltura degli altri 26 paesi dell'UE hanno inviato una richiesta alla Commissione Europea affinché appronti tali regole: ma la Commissione si è rifiutata, con l'assurda motivazione che non è la speculazione a causare l'inflazione dei prezzi del cibo! La proposta di bandire la speculazione sul cibo è stata messa all'ordine del giorno del G20 iniziato il 18 febbraio a Parigi. Il ministro delle Finanze indonesiano Agus Martowardojo ha dichiarato al G20: "Auspichiamo che il forum del G20 eserciti pressioni sui mercati in modo che non ci siano più speculatori, o industrie finanziarie o non finanziarie, che speculano sulle derrate alimentari". Il ministro francese dell'Agricoltura Bruno Le Maire ha confermato la necessità di un limite alla speculazione: "Va imposto. È inaccettabile che ci siano persone che creano artificialmente carenze di cibo e si approprino di questa o quella quantità di derrate alimentari al solo scopo di fare dei profitti, mentre milioni di persone patiscono la fame".
Se politici e mezzi d'informazione non si adopereranno affinchè queste sconcertanti verità siano di pubblico dominio, essi stessi saranno complici del disastro verso cui va dirigendosi l'umanità, continuando a privilegiare la speculazione piuttosto che il lavoro e la produzione economica reale.
Claudio Giudici
(Movimento Internazionale per i Diritti Civili - Solidarietà)
Nicola Oliva
(Consigliere comunale PD di Prato)

mercoledì 30 marzo 2011

Attività tettoniche: gli esperti mettono in guardia dal "Big One"

(EIR Strategic Alert) - Alcuni esperti impegnati ad indagare i rapporti tra i lampi solari, i movimenti nella galassia e fenomeni terrestri, prevedono l'intensificazione dell'attività tettonica e vulcanica nel prossimo periodo.
Il vicedirettore dell'Istituto di Geografia dell'Accademia delle Scienze Russa, Arkadi Tishkov, ha notato in una recente intervista con la Voice of Russia che il terremoto giapponese potrebbe essere stato provocato dalla Luna e dal Sole. La luna è attualmente a soli 350.000 chilometri di distanza, la più breve da un decennio, mentre l'attività solare è al culmine negli ultimi anni, come indicato da un'esplosione che ha causato una potente tempesta magnetica alla fine di febbraio.
Altri geologi russi sostengono che nuove scosse sotterranee potrebbero essere in vista non solo per il Giappone, ma anche per le aree russe vicine (Sakhalin, Kamchatka, e le isole Kurili).
Dalla Gran Bretagna, l'astrofisico Piers Corbyn riferisce che "l'attività vulcanica e sismica e le variazioni metereologiche determinate dal sole e dalla luna, sono le più estreme da 66 anni a questa parte e molto probabilmente il doppio più ampie di quelle precedenti" e che la West Coast degli Stati Uniti è un'area a rischio.
Stando a Corbyn, è stato il lampo solare di Classe X del 10 marzo 2011 a causare l'impatto sulla terra da parte di una espulsione di materia coronale registrata dalla NASA. Egli ritiene che questo, a sua volta, abbia scatenato il megaterremoto in Giappone il giorno dopo.
Se si verificasse un terremoto sulla costa pacifica degli Stati Uniti, esso colpirebbe la faglia di Sant'Andrea in California e la zona di subduzione della Cascadia, un'area di 965 chilometri, a 80 chilometri dalla costa, che va dalla California settentrionale alla British Columbia.
Per il sismologo dell'Università del Colorado Roger Bilham, il megaterremoto in Giappone è quasi un modello per il sisma di magnitudo 9.0 che gli scienziati prevedono lungo la costa dell'Oregon e dello stato di Washington. Un avvertimento simile è stato lanciato da Robert S. Yeats, un docente di geologia dell'Università Statale dell'Oregon in pensione. Visto che la zona di subduzione della Cascadia è sott'acqua, produrrebbe probabilmente uno tsunami, ha detto.
Contrariamente al Giappone, tuttavia, che ha costruito difese ammirevoli contro i terremoti negli ultimi decenni, i preparativi in Nord America sono molto indietro, e sono stati anche fatti oggetto della mannaia dei tagli alle spese. In effetti, la finanziaria approvata dal Congresso imporrebbe una riduzione del 16% ai fondi per la manutenzione e la gestione dei sistemi di allarme anti-tsunami, per non parlare dei sistemi di rilevamento via satellite per gli uragani, come ha riferito il 17 marzo alla Commissione Scienza e Tecnologia della Camera il ministro del Commercio Gary Locke.
Quanto al Presidente Obama, le sue proposte per ridurre il bilancio prendono di mira i programmi più avanzati della NASA, come l'esplorazione spaziale con equipaggio umano. Un esempio: ha ordinato l'eliminazione del programma di un radar satellitare che avrebbe aumentato la capacità di rilevare e reagire a eruzioni sismiche. Inoltre, Obama è decisamente contrario all'energia di fusione termonucleare.
Nel 2010, stando allo
Statesman Journal dell'Oregon, il Dipartimento di Geologia e Industrie Minerarie ha pubblicato un rapporto sugli effetti di un terremoto nella zona di subduzione della Cascadia in cui si afferma che "in un grosso terremoto, molte delle nostre linee vitali, quali le principali autostrade, i terminali per il rifornimento di carburante, le linee elettriche ed i sistemi di telecomunicazioni non saranno in grado di fornire i servizi previsti".
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domenica 27 marzo 2011

Il possibile successore di Gheddafi

(Emergency) - Dopo aver incontrato Sarkozy e la Clinton, Mahmoud Jibril è stato nominato ieri capo del governo provvisorio dei ribelli libiciIl Consiglio nazionale dei ribelli libici ha nominato ieri un
governo di transizione guidato da Mahmoud Jibril, il distinto signore ricevuto con tutti gli onori da Sarkozy all'Eliseo lo scorso 10 marzo e incontratosi pochi giorni dopo con la Clinton. Questo anonimo tecnocrate sessantenne, finora sconosciuto alle cronache, è stato per anni l'uomo chiave di Washington e Londra all'interno del regime del Colonnello Gheddafi. In qualità di direttore dell'Ufficio nazionale per lo sviluppo economico (Nedb) del governo libico, Jibril lavorava per facilitare la penetrazione economica e politica angloamericana in Libia promuovendo un radicale processo di privatizzazione e liberalizzazione dell'economia nazionale. Dopo aver studiato e insegnato per anni 'pianificazione strategica e processi decisionali' nell'università statunitense di Pittsburgh, Jibril ha trascorso la sua vita a predicare il vangelo neoliberista in tutti i paesi arabi, per poi dedicarsi al suo Paese natale alla guida del Nedb, organizzazione governativa creata nel 2007 su impulso di "aziende di consulenza internazionali, prevalentemente americane e britanniche".
Dai cablogrammi inviati a Washington dall'ambasciata Usa a Tripoli emerge il
lavoro di lobbying che Jibril ha svolto negli ultimi quattro anni nel tentativo di convincere il regime di Tripoli - in particolare il figlio del colonnello,
Said al-Islam - ad adottare radicali riforme economiche, a potenziare i rapporti economici con gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna), congelati da decenni, e a formare una nuova classe dirigente filo-occidentale. Un lavoro che all'inizio sembrava promettente, ma che alla fine è stato bloccato da Gheddafi.
Un cablo del novembre 2008 rende conto di come Jibril suggerisca agli Usa di stare attenti alla "crescente competizione" per le risorse petrolifere libiche da parte di Europa, Russia, Cina e India, osservando che nei prossimi anni la Libia diverrà
''più preziosa'' in ragione delle sue riserve petrolifere ancora non sfruttate. Il capo del Nedb invita Washington ad approfittare delle future
privatizzazioni libiche per
investire anche in infrastrutture, sanità e istruzione, e a formare giovani libici nelle università Usa. Non stupisce che, in un successivo cablo di fine 2009, l'ambasciata americana Usa a Tripoli descriva Jibril come
"un interlocutore serio che sa cogliere la prospettiva Usa".
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lunedì 21 marzo 2011

L’Italia ha già perso la sua guerra di Libia

Dopo aver celebrato in sordina il Centocinquantenario dell’Unità, il Governo italiano ha scelto d’aggiungere ai festeggiamenti uno strascico molto particolare: una guerra in Libia. Un conflitto che sa tanto di amarcord: la Libia la conquistò Giolitti nel 1911, la “pacificò” Mussolini nel primo dopoguerra, e fu il principale fronte italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa volta, però, le motivazioni sono molto diverse.
Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio: solo uno sprovveduto potrebbe pensare che l’imminente attacco di alcuni paesi della NATO alla Libia sia davvero motivato da preoccupazioni “umanitarie”. Gheddafi, certo, è un dittatore inclemente coi suoi avversari. Ma non è più feroce di molti suoi omologhi dei paesi arabi, alcuni già scalzati dal potere (Ben Alì e Mubarak), altri ancora in sella ed anzi intenti a soffiare sul fuoco della guerra (gli autocrati della Penisola Arabica).
L’asserzione dell’ex vice-ambasciatore libico all’ONU, passato coi ribelli, secondo cui sarebbe in atto un «genocidio», rappresenta un’evidente boutade. È possibile ed anzi probabile che Gheddafi abbia represso le prime manifestazioni contro di lui (come fatto da tutti gli altri governanti arabi), ma l’idea che abbia impiegato bombardamenti aerei (!) per disperdere cortei pacifici è tanto incredibile che quasi sarebbe superflua la smentita dei militari russi (che hanno monitorato gli eventi dai loro satelliti-spia).
Non è stato necessario molto tempo perché dalle proteste pacifiche si passasse all’insurrezione armata, ed a quel punto è divenuto impossibile parlare di “repressione delle manifestazioni”. Anche se i giornalisti occidentali, ancora per alcuni giorni, hanno continuato a chiamare “manifestanti pacifici” gli uomini che stavano prendendo il controllo di città ed intere regioni, e che loro stessi mostravano armati di fucili, artiglieria e carri armati (consegnati da reparti dell’Esercito che hanno defezionato e forse anche da patroni esterni). Da allora Gheddafi ha sicuramente fatto ricorso ad aerei contro i ribelli, ma i pur numerosi giornalisti embedded nelle fila della rivolta non sono riusciti a documentare attacchi sui civili. La stessa storia delle “fosse comuni”, che si pretendeva suffragata da un’unica foto che mostrava quattro o cinque tombe aperte su un riconoscibile cimitero di Tripoli, è stata presto accantonata per la sua scarsa credibilità.
La guerra civile tra i ribelli ed il governo di Tripoli, che prosegue – a quanto ne sappiamo – ben poco feroce, giacché i morti giornalieri si contano sulle dita di una o al massimo due mani, stava volgendo rapidamente a conclusione. Il problema è che a vincere era, agli occhi d’alcuni paesi atlantici, la “parte sbagliata”. La storia – in Krajina, in Kosovo, persino in Iràq – ci ha insegnato che, generalmente, gl’interventi militari esterni fanno più vittime di quelle provocate dai veri o presunti “massacri” che si vorrebbero fermare. In Krajina, ad esempio, i bombardamenti “umanitari” della NATO permisero ai Croati d’espellere un quarto di milione di serbi: una delle più riuscite operazioni di “pulizia etnica” mai praticate in Europa, almeno negli ultimi decenni.
Le motivazioni reali dell’intervento, dunque, sono strategiche e geopolitiche: l’umanitarismo è puro pretesto. In questo sito si può leggere molto sulle reali motivazioni della Francia, degli USA e della Gran Bretagna (vedasi, ad esempio: Intervista a Jacques Borde; Libia: Golpe e Geopolitica di A. Lattanzio; La crisi libica e i suoi sciacalli di S.A. Puttini). Motivazioni, del resto, facilmente immaginabili. Qui ci sofferemo invece sulle scelte prese dal Governo italiano.
Cominciamo dall’inizio. Prima dell’esplodere dell’insurrezione, l’Italia ha un rapporto privilegiato con la Libia. Il nostro paese è innanzi tutto il maggiore socio d’affari della Jamahiriya: primo acquirente delle sue esportazioni e primo fornitore delle sue importazioni. La Libia vende all’Italia quasi il 40% delle sue esportazioni (il secondo maggior acquirente, la Germania, raccoglie il 10%) e riceve dalla nostra nazione il 18,9% delle sue importazioni totali (il secondo maggiore venditore, la Cina, fornisce poco più del 10%). La dipendenza commerciale della Libia dall’Italia è forte, dunque, ma è probabile che il rapporto abbia maggiore valenza strategica per noi che per Tripoli. La Libia possiede infatti le maggiori riserve petrolifere di tutto il continente africano (per giunta petrolio d’ottima qualità), è geograficamente prossimo al nostro paese e dunque si profila naturalmente come fornitore principale, o tra i principali, di risorse energetiche all’Italia. La nostra compagnia statale ENI estrae in Libia il 15% della sua produzione petrolifera totale; tramite il gasdotto Greenstream nel 2010 sono giunti in Italia 9,4 miliardi di metri cubi di gas libico. I contratti dell’ENI in Libia sono validi ancora per 30-40 anni e, malgrado l’atteggiamento italiano che analizzeremo a breve, Tripoli li ha confermati il 17 marzo per bocca del ministro Shukri Ghanem. Attualmente la Libia concede ad imprese italiane tutti gli appalti relativi alla costruzione d’infrastrutture, garantendo così miliardi di commesse che si ripercuotono positivamente sull’occupazione nel nostro paese. Infine la Libia, che grazie alle esportazioni energetiche è un paese relativamente ricco (ha il più elevato reddito pro capite dell’Africa), investe in Italia gran parte dei suoi “petrodollari”: attualmente ha partecipazioni in ENI, FIAT, Unicredit, Finmeccanica ed altre imprese ancora. Un apporto fondamentale di capitali in una congiuntura caratterizzata da carenza di liquidità, dopo la crisi finanziaria del 2008.
Tutto ciò fa della Libia un caso più unico che raro, dal nostro punto di vista, tra i produttori di petrolio nel Mediterraneo e Vicino Oriente. Quasi tutti, infatti, hanno rapporti economici privilegiati con gli USA e con le compagnie energetiche anglosassoni, francesi o asiatiche.
La relazione italo-libica è stata suggellata nel 2009 dal Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, siglato a nome nostro dal presidente Silvio Berlusconi ma derivante da trattative condotte già sotto i governi precedenti, anche di Centro-Sinistra. Tale trattato, oltre a rafforzare la cooperazione in una lunga serie di ambiti, impegnava le parti ad alcuni obblighi reciproci. Tra essi possiamo citare: il rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica» ed il diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2); l’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3); l’astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1); la rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2); l’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).
L’Italia è dunque arrivata all’esplodere della crisi libica come alleata di Tripoli, legata alla Libia dalle clausole – poste nero su bianco – di un trattato, stipulato non cent’anni fa ma nel 2009, e non da un governo passato ma da quello ancora in carica.
L’atteggiamento italiano, nel corso delle ultime settimane, è stato incerto ed imbarazzante. Inizialmente Berlusconi dichiarava di non voler “disturbare” il colonnello Gheddafi (19 febbraio), mentre il suo ministro Frattini agitava lo spettro di un “emirato islamico a Bengasi” (21 febbraio). Ben presto, però, l’insurrezione sembrava travolgere le autorità della Jamahiriya e l’atteggiamento italiano mutava: Frattini inaugurava la corsa al rialzo delle presunte vittime dello scontro, annunciando 1000 morti (23 febbraio) mentre Human Rights Watch ancora ne conteggiava poche centinaia; il ministro della Difesa La Russa (non si sa in base a quali competenze specifiche) annunciava la sospensione del Trattato di Amicizia italo-libica, sospensione per giunta illegale (27 febbraio). Gheddafi riesce però a ribaltare la situazione e parte alla riconquista del territorio caduto in mano agl’insorti. Man mano che le truppe libiche avanzano, il bellicismo in Italia sembra spegnersi: il ministro Maroni arriva ad invitare gli USA a «darsi una calmata» (6 marzo). Ma la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 17 marzo, che dà il via libera agli attacchi atlantisti sulla Libia, provoca una brusca virata della diplomazia italiana: il nostro governo mette subito a disposizione basi militari ed aerei per bombardare l’ormai ex “amico” e “partner”.
È fin troppo evidente come il Governo italiano abbia, in questa vicenda, manifestato un atteggiamento poco chiaro e molto indeciso; semmai, s’è palesata una spiccata propensione ad ondeggiare a seconda degli eventi, cercando di volta in volta di schierarsi col probabile vincitore. Come già in altre occasioni recenti di politica estera, il Capo del Governo è parso assente, lasciando che suoi ministri dettassero o quanto meno comunicassero alla nazione la linea dell’Italia. L’ambivalenza ha scontentato sia il governo libico, che s’aspettava una posizione amichevole da parte di Roma, sia i ribelli cirenaici, che hanno ricevuto sostegno concreto dalla Francia e dalla Gran Bretagna ma non certo dall’Italia. Infine, il Trattato di Amicizia, siglato appena due anni fa, è stato stracciato e Berlusconi si prepara, seppur sotto l’égida dell’ONU, a scendere in guerra contro la Libia.
Qualsiasi sarà l’esito dello scontro, l’Italia ha già perduto la sua campagna di Libia. I nostri governanti, memori della peggiore specialità nazionale, hanno celebrato il Centocinquantenario dell’Unità con un plateale voltafaccia ai danni della Libia: una riedizione tragicomica del dramma dell’8 settembre 1943. Questa volta non sarà l’Italia stessa, ma l’ex “amica” Libia, ad essere consegnata ad una guerra civile lunga e dolorosa, che senza ingerenze esterne si sarebbe conclusa entro pochi giorni.
Ma non si sta perdendo solo la faccia e l’onore. Le forniture petrolifere e le commesse, comunque finirà lo scontro, molto probabilmente passeranno dalle mani italiane a quelle d’altri paesi: se non tutte, in buona parte. Se vincerà Gheddafi finiranno ai Cinesi o agl’Indiani; se vinceranno gl’insorti ai Francesi ed ai Britannici; in caso di stallo e guerra civile permanente in Libia resterà poco da raccogliere. Se non ondate d’immigrati ed influssi destabilizzanti per tutta la regione.

domenica 20 marzo 2011

Zbigniew Jaworowski su Fukushima: Sul robusto settore nucleare giapponese.

(MoviSol) - 15 marzo 2011 - Il Giappone, affacciato sul cosiddetto "Cerchio di fuoco" dell'Oceano Pacifico, è una della nazioni più instabili dal punto di vista sismico. Nel XX secolo, a causa di nove terremoti complessivi di intensità non inferiore ai 6 gradi della scala Richter, morirono circa 158.280 giapponesi. Questa realtà era nella mente dei progettisti e dei costruttori dei 55 reattori destinati ai 17 impianti di potenza, che riforniscono di corrente elettrica la nazione, coprendo il 34,5 % del suo fabbisogno di elettricità. Li costruirono sufficientemente robusti da non rilasciare alcuna radioattività nociva oltre i livelli consentiti, anche nel peggiore terremoto della storia. Il sisma dell'11 marzo 2011, di magnitudo 9.0, il più grave della storia giapponese, ha dimostrato che gli impianti hanno retto come previsto. Nessuna radioattività pericolosa è fuoriuscita dagli edifici distrutti di Fukushima, e nessuno del pubblico è stato gravemente colpito dalle radiazioni. Anche se gli impianti nucleari hanno resistito alle scosse del sisma, sembra che, tuttavia, non abbiano retto all'enorme ondata dello tsunami, che ha coperto una fascia di terraferma larga 10 km, allagando anche i motori diesel dei generatori di servizio degli impianti. Il risultato è il surriscaldamento dei noccioli dei reattori.
Nelle città più colpite, quelle di Miyagi, di Fukushima e di Ibaraki, sono collocati 11 reattori nucleari. Quelli che erano in funzione durante il terremoto sono stati spenti automaticamente e le équipe di tecnici e lavoratori hanno cominciato ad eseguire le procedure prestabilite di dissipazione del "calore residuo", cioè ad iniettare acqua nei vasi in pressione dei reattori. Dopo un'ora, però, i generatori di emergenza di Fukushima Daiichi sono stati distrutti dallo tsunami; il sistema di raffreddamento ad alta pressione è andato perduto e, prima dell'aggiunta di generatori mobili aggiuntivi, la temperatura del nocciolo della Unità 1 è cresciuta al punto in cui il rivestimento allo zirconio delle barre di fissile hanno reagito con l'acqua, producendo idrogeno.
Quando il 12 marzo è stato rilasciato del gas del vaso in pressione, esternamente al primo contenitore si è avuta un'esplosione dell'idrogeno, lasciando intatto il vaso di contenimento. Questa situazione tecnicamente aggravata ha portato al ferimento di alcune persone, senza tuttavia portare ad un rilascio di radioattività nell'ambiente. Dopo l'esplosione, inizialmente i livelli di Cesio 137 e di Iodio 131 sono cresciuti, ma sono scesi nel giro di poche ore. Il 14 marzo si è reso necessario ripetere le suddette operazioni, a causa di un esplosione attorno al reattore dell'Unità 3 dell'impianto Daiichi di Fukushima. Anche in questo caso, è saltato per aria il tetto dell'edificio, senza che si danneggiasse il vaso di contenimento e la radioattività fosse rilasciata dal materiale fissile.
Le autorità hanno assunto la decisione di condurre due misure precauzionali. Una è stata l'evacuazione di circa 200.000 residenti nelle dieci città vicino allo stabilimento danneggiato. L'altra è stata la distribuzione di 230.000 pastiglie di iodio presso i centri di evacuazione dalle aree attorno agli impianti di Fukushima Daiichi e Fukushima Daini. Lo iodio non è ancora stato somministrato alla popolazione, ma non è da considerarsi misura necessaria.
Si può immaginare che cosa accadrebbe se fondessero i noccioli delle due centrali di Fukushima Daiichi e Fukushima Daini. Sappiamo quel che accadde al reattore di Three Mile Island nel 1979 e al reattore di Cernobil durante la catastrofe del 1986. In Giappone si avrebbe un esito simile a quello di Three Mile Island: allore le spesse pareti di contenimento in calcestruzzo protessero il reattore e impedirono la fuoriuscita dei prodotti della fissione. Quasi nulle furono le emissioni di radionuclidi in atmosfera; vi furono delle fughe di un gas nobile radioattivo innocuo; quasi nulla fu l'esposizione della popolazione. Non vi sono affatto possibilità che si ripeta la storia di Cernobil, poiché quel reattore non era collocato entro un vaso di contenimento, e per dieci giorni la radioattività fu libera di abbandonare il reattore fuso a causa della combustione della grafite usata per la sua costruzione. Anche se per disgrazia i vasi di contenimento delle centrali giapponesi fossero danneggiati da un altro terremoto o da un altro tsunami, i residenti nelle vicinanze non sarebbero colpiti dalle radiazioni. Questo è ciò che abbiamo appreso dal disastro di Cernobil, a causa del quale nessun individuo della popolazione residente nelle vicinanze morì, in quanto – come attesta un recente rapporto del Comitato Scientifico sugli Effetti della Radiazione Atomica dell'ONU (vedi l'Appendice D, "Effetti sulla salute dovuti alla radiazione del disastro di Cernobil", pagg. 1-173 del volume II del rapporto UNSCEAR 2011 "Fonti e Effetti della Radiazione Ionizzante") – le dosi di radiazione ricevute in ricaduta dall'alto (fallout), stimate in circa 1mSv all'anno, furono inferiori a quelle della radiazione naturale, troppo piccole per produrre qualche effetto.
Zbigniew Jaworowski è uno scienziato multidisciplinare che ha all'attivo più di trecento articoli scientifici, quattro libri e decine di articoli di divulgazione scientifica. È stato un membro del Comitato Scientifico sugli Effetti della Radiazione Atomica delle Nazioni Unite (UNSCEAR) sin dal 1973: nel biennio 1980-1982 ne fu presidente. Interessante è il suo recente articolo dal titolo "Osservazioni su Cernobil dopo 25 anni di radiofobia", disponibile in lingua inglese a questa pagina. Un suo articolo tradotto in italiano è disponibile su questo sito con il titolo "Un encomio della Bielorussia per la decisione di ripopolare la zona evacuata intorno al reattore di Chernobyl".

giovedì 10 marzo 2011

L'Unione Europea alza la mannaia contro i salari e i diritti sindacali

(EIR) - Mentre le istituzioni dell'Unione Europea sono corresponsabili dell'aumento dei prezzi delle materie prime con la loro politica dei salvataggi bancari, esse chiedono ai governi di congelare i salari. Questa folle politica è stata ribadita dal presidente della Banca Centrale Europea Trichet che ha dichiarato, alla conferenza stampa mensile della BCE, che "non si può fare niente" contro la speculazione sulle materie prime, insistendo che i governi devono evitare effetti di "rimbalzo" come gli aumentali salariali.
Ad una domanda dell'EIR sull'aumento del prezzo del cibo come causa delle rivolte in Nord Africa, Trichet ha ammesso che la BCE avrebbe il potere di intervenire contro la speculazione, ad esempio riducendo il flusso di liquidità, ma si è rifiutato di prendere in considerazione alcun intervento. Si è lamentato invece del "patto competitivo" proposto da Francia e Germania che ridurrebbe il potere di "governance" della Commissione UE, chiedendo al Parlamento Europeo di cambiarlo.
In netto contrasto con Trichet, il ministro dell'Economia Tremonti, durante un incontro dell'Aspen Institute a Istanbul il 4 marzo, ha ribadito il suo punto di vista che l'innesco delle varie rivolte in Nord Africa è proprio l'aumento dei prezzi delle commodities. Ha ricordato di aver sollevato la questione al G8 del 2008, e "la risposta scientifica, specie del Fondo Monetario Internazionale, fu che la speculazione non esiste". Secondo Tremonti, l'ondata di rivolte potrebbe estendersi ad est e colpire anche i paesi sviluppati, dove si teme già lo shock petrolifero.
"In Italia abbiamo l'espressione caro-vita" ha detto Tremonti. "In Africa, in tutte le regioni povere, è una questione non di caro-vita ma di vita, e la speculazione sta distruggendo la vita dei popoli, con incrementi del 30 o 40% in pochi mesi che hanno una causa speculativa e un effetto mortale". La "reazione contro un eccesso di ingiustizia" arriverà anche in Asia, ha ammonite, "e questo può portare a problemi economici e instabilità, mentre noi dobbiamo operare per la stabilità. E può portare a problemi democratici in Europa, ho detto che c'è il rischio dell'estrema destra".
A quanto pare le istituzioni dell'UE si stanno dando da fare perché ciò accada. Su richiesta di Trichet, la Commissione Europea presenterà, al vertice dell'11 marzo dei capi di governo dell'Eurozona un piano stilato dagli assistenti del Commissario Europeo José Manuel Barroso e del presidente del Consiglio Europeo Herman van Rompuy. Oltre metà del loro documento punta a tagliare i salari, smantellare i diritti sindacali e tagliare le pensioni.
Sotto l'egida del "promuovere la competitività" il documento chiede di mettere fine di fatto ai diritti sindacali esigendo una "revisione degli accordi sindacali per aumentare la decentralizzazione nel processo di negoziato e per migliorare il meccanismo di indicizzazione" assicurando al contempo "limiti salariali nel settore pubblico".
Sempre inneggiando all'aumento della "produttività" il documento chiede che vengano "rimosse restrizioni ingiustificate delle professioni come quote o numeri chiusi". Sotto l'egida del "promuovere l'occupazione" chiede "riforme del mercato del lavoro che promuovano la flessibilità", ovvero eliminare la sicurezza del posto di lavoro. E sotto la "sostenibilità delle pensioni e della previdenza sociale" chiede l'aumento dell'età pensionabile e la "riduzione del prepensionamento e usare incentivi mirati per assumere lavoratori più anziani e promuovere l'apprendimento in età avanzata".

lunedì 7 marzo 2011

Per la Fed del Kansas la situazione e' peggiore del pre-Obama

(Eir - Strategic Alert) - Il comitato politico di LaRouche (LPAC) sta intervenendo con efficacia nel fermento da sciopero di massa negli USA sollecitando tutti gli attori a guardare "il quadro più ampio" e chiedendo una riorganizzazione completa del sistema bancario e la creazione di un sistema creditizio per far ripartire l'economia. In questa campagna, il rapporto della FCIC si dimostra di grande validità.
In un'intervista alla radio
WNYC il 25 febbraio, lo stesso Angelides si è impegnato a continuare la battaglia. È significativo che egli abbia non solo sollevato la questione del Glass-Steagall Act, ma anche del principio alla base di esso: la distinzione tra gli investimenti di capitale produttivi e improduttivi, o quella che egli ha chiamato "l'economia di carta".
Quando gli hanno chiesto che cosa risponde alle critiche dei repubblicani secondo cui la crisi è stata provocata dal semplice eccesso di liquidità, Angelides ha fatto osservare che una grande quantità di capitale non conduce necessariamente ad una crisi. "La presenza di capitale a buon prezzo, grande quantità di capitale disponibile, non deve per forza essere un disastro. quel denaro, invece di essere incanalato in ipoteche che erano completamente tossiche, avrebbe potuto essere incanalato nella produzione di posti di lavoro, imprese, ricchezza per la società nel suo insieme. Insomma, capitale a disposizione in gran quantità può essere una cosa buona".
Per spiegare gli effetti dell'abolizione di Glass-Steagall, Angelides ha citato "il classico esempio di una banca che si è messa nei guai con le cartolarizzazioni", e cioè Citigroup. "Alla fine della giornata, Citigroup aveva accumulato un'esposizione di 55 miliardi di dollari alle cartolarizzazioni immobiliari subprime, e ha subìto decine di miliardi di perdite; se ci fosse stato Glass-Steagall, o qualche tipo di separazione, quell'istituto bancario non sarebbe stato in pericolo".
Angelides è anche intervenuto costruttivamente sulla tremenda crisi finanziaria degli stati. L'ha chiamata "una riscrittura della storia da parte di Wall Street e della destra" che scarica la crisi sui lavoratori e sui servizi essenziali dello stato. Ha indicato che la vera disoccupazione in California è di circa il 17% e ha dichiarato: "Questo è stato causato dalla crisi finanziaria, non dagli insegnanti".
Anche il presidente della Federal Reserve di Kansas City, Thomas Hoenig, continua la sua opposizione alla politica del suo "boss", Ben Bernanke. In un discorso a Washington il 23 febbraio, egli ha chiesto di scorporare gli istituti finanziari "too big to fail", in modo da poter avviare procedure fallimentari se necessario. Secondo Hoenig, "non si dovrebbe permettere agli organismi che operano al riparo della protezione dello stato di svolgere attività ad alto rischio".
Smontando la propaganda di Obama, Barney Frank e altri, egli ha anche affermato che l'attuale condizione finanziaria "è anche peggio che prima della crisi. Per quanto piena di buone intenzioni, la riforma finanziaria [di Obama] non migliorerà l'effetto".

domenica 6 marzo 2011

Proteste dall'India agli Stati Uniti: il sistema è un Dead Man Walking

(MoviSol) - Nel corso dell'intervista settimanale sulla TV di LPAC, Lyndon LaRouche ha sottolineato che l'attuale sistema monetario e finanziario "è ormai un 'Dead Man Walking', un condannato a morte. Cammina, ma è morto. E non c'è alcuna condizione a cui il sistema attuale di governo, in tutto il mondo, possa continuare ad esistere nella forma attuale. È già defunto". E quei leader che continuano a difenderlo si ritroveranno presto disarcionati.
L'intera regione transatlantica è in uno stato di bancarotta senza speranza, ha proseguito LaRouche, includendo enfaticamente anche il sistema dell'Euro. Non c'è modo che il debito, rappresentato dai salvataggi bancari ed altre cose simili in Europa e altrove, possa mai essere ripagato. Per questo motivo abbiamo bisogno di una riforma Glass-Steagall globale, che distingua tra il debito legittimo e quello speculativo, il che significherebbe la fine di Wall Street. Non c'è alcuna speranza di ripresa, ovunque "sotto questo Presidente degli Stati Uniti, e sotto questo sistema britannico". Con Obama alla Casa Bianca, non c'è speranza di sopravvivenza per gli Stati Uniti, e se saltano gli Stati Uniti, salta anche tutto il sistema occidentale.
"Abbiamo a che fare con un mondo dominato dalla follia di massa, e i folli sono alla guida delle istituzioni" ha dichiarato LaRouche. Ciò a cui assistiamo in Egitto, Libia, Bahrein, Tunisia, ed anche nel Wisconsin, è la disintegrazione dell'intero sistema, con una reazione a catena e i governi che cadono uno dopo l'altro.
Altrove, LaRouche ha sottolineato che Gheddafi ed il governatore del Wisconsin Walker sono espressioni della stessa crisi da collasso transatlantica. Mentre ovunque la gente è pronta a lottare, la mancanza di leadership da parte di coloro che dovrebbero fungere da guida in questa situazione "sta portando la situazione verso un processo simile alla Rivoluzione Francese" pregno di pericoli.
Dopo la sua dichiarazione iniziale su LPAC-TV LaRouche è stato interpellato sulla psicologia di massa delle rivolte che stanno scoppiando in tutto il pianeta. In risposta, egli ha esordito paragonando la reazione della popolazione "al divorzio più duro che si possa immaginare, in cui la gente dice al proprio padrone, che è il sistema attuale: 'Non ti amiamo più. Anzi, ti odiamo'. E questa è una reazione sana, molto sana", ma non basta.
Le proteste in Egitto, in Libia contro Gheddafi, in Wisconsin e in tutti gli Stati Uniti, indicano che "il sistema sta crollando, e la sposa (il popolo) sta lasciando lo sposo".
La questione ora, ha sottolineato LaRouche, è la necessità di una leadership positiva "che sia un'alternativa a tutto ciò che rappresentano Obama e Wall Street. Dobbiamo prendere l'odio della gente, che sta dilagando in tutto il mondo, in tutta l'Europa e in tutti gli Stati Uniti, in particolare, e trasformare quest'odio in qualcosa di costruttivo. La passione è giustificata. La passione che ora si esprime in odio, un odio crescente, nei confronti di questa amministrazione, e di questo Presidente e tutto quello che essi comportano: è giustificato nel senso che è stato provocato. Ma dobbiamo passare dall'odio a qualcosa di costruttivo".
Per gli Stati Uniti, LaRouche ha dato l'esempio della vittoria repubblicana alle ultime elezioni in novembre, basata sull'odio della popolazione nei confronti della politica di Obama, in particolare la riforma sanitaria, e nei confronti del Partito Democratico che ha capitolato alla Casa Bianca. Ma limitando la loro reazione ad un voto di protesta, gli americani hanno ottenuto qualcosa di pessimo tanto quanto Obama, e cioè gli ultraconservatori come il governatore Walker ("il Baltassar del Wisconsin"). "L'odio che evoca è pericoloso se rimane solo odio".
Sappiamo quali misure prendere, ha sottolineato LaRouche, con una riforma Glass-Steagall, il rifiuto di una politica sanitaria basata sul razionamento e l'efficienza dei costi, come quella di Obama, e grandi progetti come NAWAPA. Dobbiamo semplicemente attuarle. "Possiamo avere un secolo di sviluppo, con queste misure. Ma dobbiamo abbandonare il fattore dell'odio, il fattore negativo. Dobbiamo passare al fattore costruttivo".

In Spagna la crisi fa resuscitare la peseta. Per ora solo a Mugardos, in Galizia

Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che perde ma non sa quel che trova, avverte il proverbio. È proprio su questa falsariga che Mugardos, una cittadina galiziana sulla costa nord della Spagna, quasi 6mila anime, ha pensato che, per rilanciare un'economia locale un po' troppo poco dinamica, la soluzione per uscire dal tunnel fosse quella di guardarsi indietro.
Altro che euro: da quelle parti è stata resuscitata la cara, «vecchia» peseta. Oltre 60 esercizi commerciali hanno deciso di tornare ad accettare la vecchia valuta - oltre all'euro, naturalmente - invitando così tutti coloro che avessero ancora a disposizione le vecchie banconote, dismesse nove anni fa e sostituite dalla moneta unica europea, a tirarle fuori dal cassetto e spenderle. Come dire: in questa fase di crisi non c'è da fare gli schizzinosi, accettiamo tutto, non vi preoccupate.
Nonostante l'iniziale scetticismo, l'idea sembra funzionare, riferisce la Bbc online. La recessione aguzza l'ingegno, dunque. Da tempo la cittadina galiziana è travolta da una profonda crisi che tocca l'intera regione: migliaia di saracinesche di negozi abbassate, due milioni di posti di lavoro andati in fumo. Il proprietario di un negozio di ferramenta e piccoli elettrodomestici racconta che poco tempo fa si era presentato nel suo locale un uomo con una vecchia banconota da 10mila pesetas che aveva trovato in casa. Non sapeva come impiegare la valuta che - pensava - era caduta in disuso. Poco dopo era diventato il «felice proprietario» di un tostapane nuovo di zecca. Anche le valute ritornano. Prima o poi.

martedì 1 marzo 2011

L'UE minaccia l'Italia sulla Golden Share: il liberismo madre delle repubbliche delle banane

(MoviSol) - È di una settimana fa circa la notizia che il Commissario europeo al mercato interno Michel Barnier è tornato alla carica contro ogni intervento statale - anche solo teorico – nell'economia italiana. Per conto dell'Unione Europea il commissario ha intimato all'Italia di modificare la disciplina sulla Golden Share, l'azione d'oro detenuta dallo Stato in gruppi strategici come Eni, Finmeccanica, Enel e Telecom Italia. Secondo Barnier i poteri spettanti al Governo italiano sono "eccessivi", "vaghi e indeterminati"; conferirebbero alle autorità "ampi poteri discrezionali nel giudicare i rischi per gli interessi vitali dello Stato", tutto in contrasto con le regole comunitarie sulla libera concorrenza.
Ora, che l'Unione Europea sia contro ogni intervento statale in economia non dovrebbe sorprendere nessuno, ma la rinnovata aggressività verso l'Italia in questo momento di crisi economica e scompiglio politico potrà forse aiutare ad aprire gli occhi a chi crede ancora che i principii del liberismo siano compatibili con il benessere economico delle nazioni. Ma torniamo un poco indietro per inquadrare meglio la situazione. La svolta verso la distruzione dell'assetto produttivo delle economie europee - spesso identificato come il "modello renano" negli anni Novanta - avvenne a ridosso di un periodo di grande sconvolgimento politico in Europa, iniziato con il crollo del muro di Berlino nel 1989.
A quel tempo la Germania era pronta a guidare un processo di sviluppo economico vero non solo per i nuovi Länder, ma anche per la Polonia, e implicitamente, per tutta l'Europa dell'Est. La capacità produttiva del cuore dell'Europa sarebbe state utilizzata in senso dirigistico, per sollevare i popoli oppressi per decenni dal sistema sovietico. Il movimento di Lyndon LaRouche si attivò subito con una campagna a favore di un'alleanza per lo sviluppo non solo dell'Europa stessa, ma anche dell'Asia attraverso il noto progetto del Ponte eurasiatico di sviluppo. Le nazioni del continente europeo avrebbero guidato una nuova epoca di cooperazione e di progresso, cambiando la direzione della storia attuale.
Gli interessi oligarchici non sono stati a guardare. Da Londra, sede storica della geopolitica imperiale, partì la campagna contro la Germania accusandola di diventare il Quarto Reich; l'uomo chiave in Germania per il finanziamento del progetto, Alfred Herrhausen, fu assassinato da un gruppo terroristico di dubbia esistenza; scoppiò la guerra nei Balcani, destabilizzando l'Europa centrale proprio come successe ai tempi della Prima Guerra Mondiale; e l'obiettivo di una maggiore cooperazione europea divenne un pretesto per imporre il trattato di Maastricht e la moneta unica, annullando la sovranità economica dei paesi membri. E non si pensi a qualche oscura teoria complottistica; fu Helmut Kohl stesso nelle sue memorie ad affermare con forza che Margaret Thatcher e Francois Mitterrand, con l'appoggio di George H.W. Bush, pretesero che la Germania si impegnasse ad entrare nell'Euro in cambio della via libera alla riunificazione tedesca.
Non a caso, anche l'Italia visse un momento di grande destabilizzazione, una trasformazione politica che inaugurò la stagione di "modernizzazione" e portò dritto alla crisi economica e finanziaria di oggi. Tangentopoli fu usata per fare fuori un'intera classe politica, con moltissime pecche senz'altro, ma a volte disposta ad opporsi ai diktat della finanza internazionale. Inoltre, il sistema delle partecipazioni statali rappresentava una struttura in grado di garantire il carattere industriale del Paese internamente e anche a livello internazionale, nonostante il declino già in atto fin dagli anni Settanta.
A partire dai governi tecnici guidati da Amato e Ciampi non solo ci fu un "rinnovamento" della classe politica, ma furono riscritte le regole dell'economia, dalle banche alle pensioni, dalle grandi imprese ai servizi locali. La stagione delle privatizzazioni portò alla svendita di numerose aziende statali, nel nome dell'efficienza e della necessità di abbattere il debito pubblico. Come abbiamo già documentato, questo processo in realtà non portò a dei risparmi per lo Stato; in molti casi rappresentò una perdita vera e propria, e soprattutto, aprì i settori strategici dell'economia a certi interessi privati nazionali e internazionali che hanno a cuore tutt'altro che il Bene Comune.
Così torniamo alla Golden Share. Le grandi aziende dello Stato sono ora private, ma in alcune di esse il Tesoro mantiene un potere di veto sulle decisioni strategiche. Dal punto di vista del sistema finanziario ed economico internazionale di oggi, tale potere è chiaramente un'anomalia; se si crede nel "libero mercato" lo Stato non deve avere alcun ruolo di indirizzo delle imprese, finirebbe solo per distorcere la libera concorrenza. Se invece guardiamo il mondo dal punto di vista strategico indicato in modo pur sommario sopra, la possibilità per l'Italia - e per ogni nazione che vuole sopravvivere in questo tempo di crisi - di difendersi dalla distruzione o dalla svendita dei settori fondamentali della propria economia, è essenziale. Tanto più nel momento in cui i dogmi economici degli ultimi decenni sono appena stati smentiti in modo spettacolare. L'efficienza del mercato ha portato ad una serie di bolle speculative la cui implosione ha inaugurato una crisi senza fine. Il mercato ha allocato i capitali in modo così perfetto che ora i cittadini subiscono l'austerità e la crisi per garantire lunga vita ai centri speculativi transnazionali.
Il fatto che il liberismo sia sancito nel Trattato di Lisbona non toglie il fallimento di quel sistema. Finché rimane qualche briciola di sovranità sarebbe il caso di tenersela; il mondo sta cambiando rapidamente, e gli Stati serviranno proprio per costruire un futuro per le popolazioni che ora non sono più disposte a patire la fame e la riduzione dei loro diritti nel nome della globalizzazione.

domenica 27 febbraio 2011

Libia: rischio propaganda sulla verità

(Il Giornale) - Ma quanti sono i morti in Libia? Mille, duemila o diecimila? E quante città sono cadute in mano ai rivoltosi? Due, tre, dieci? La crisi libica è densa di notizie tanto sensazionali e sconvolgenti quanto di dubbia attendibilità. Siamo tutti inorriditi apprendendo che Gheddafi avrebbe ordinato all'aviazione di bombardare la folla, circostanza che però il vescovo di Tunisi non conferma, al pari di altri testimoni. Le comunicazioni telefoniche dalla Libia sono difficilissime e quelle online interrotte; però ogni giorno sbucano filmati drammatici pro o contro il regime. Abbiamo visto quello sulle fosse comuni, che però tanto comuni non sembravano. Erano, piuttosto, sedici buche nel terreno come quelle che vengono scavate in ogni cimitero. La tv di Tripoli, invece, trasmette le immagini di migliaia di libici esultanti in piazza per dimostrare che il Colonnello è amato e ancora saldamente al potere. Chi mente? Inutile, chiederselo, mentono tutti. Come in ogni crisi. I filmati con cadaveri o distruzioni possono essere riferiti a fatti avvenuti anni fa o in altri Paesi e basta stringere il campo dell'obbiettivo per far sembrare poche decine di persone in piazza una folla quasi oceanica.
Ricordate il Cormorano nero della prima guerra del Golfo, simbolo della spietatezza di Saddam che - ci dissero allora - aveva aperto gli oleodotti? Era un falso. E la strage di Timisoara in Romania in occasione della rivolta contro Ceausescu? Mai esistita. Ai tempi dell'ultima guerra in Irak, i media diffusero una quantità gigantesca di frottole, di cui però nessuno si accorse in tempo reale. Anzi, quasi nessuno. Le poche voci dubbiose di solito finiscono travolte dall'impeto delle breaking news, dalle notizie dell'ultima ora e dunque da una concitazione travolgente. Impressionare o stordire. Trascinare o deprimere. Esaltare o impaurire. Quel che conta è l'effetto immediato. Le guerre moderne si vincono anche, anzi soprattutto, sui media.
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(Il Giornale) - Lo storico Angelo Del Boca profondo conoscitore del Paese «Quella spiaggia è un vecchio cimitero. E dove sono i corpi?»
«Fosse comuni? Diecimila morti? Cinquantamila feriti? Bum!» Angelo Del Boca, 85 anni, borbotta incredulo al telefono. Scrittore, partigiano, storico, «biografo» di Gheddafi (ci ha fatto un libro di 400 pagine) Del Boca fu il primo a denunciare le atrocità compiute dalle truppe italiane in Libia quando su quello «scatolone di sabbia» sventolava il tricolore.
Niente fosse comuni, dunque.
«Ma no, ma no. Le immagini che tutti abbiamo visto sono quelle del cimitero di Asiah, a ovest, là dove finisce la città. É una zona che conosco bene, come tutta Tripoli, del resto. Ma poi, a ben pensare, che cosa abbiamo visto? Dei buchi, delle fosse; e delle persone che ci stavano accanto. E i corpi? I cadaveri? Chi li ha visti quelli?».
Eppure il bilancio è bell'e che fatto. Diecimila morti, cinquantamila feriti... Tutta propaganda?
«Certamente chi ha messo in giro queste cifre punta a rendere peggiore l'immagine di Gheddafi. E Dio sa se ce n'è bisogno. Ma ci rendiamo conto di quel che vuol dire cinquantamila feriti? Non basterebbero tutti gli ospedali del nord Africa. Son balle, creda. Io ho tre testimoni oculari di cui mi fido. Persone indipendenti, serie, come l'avvocato Anwar Fekini, laureato alla Sorbona, nipote di quel Mohammed Fekini che fu capo della resistenza in Tripolitania dal 1911 al 1931. Bene. Fekini parla di mille, duemila morti».
Che fine farà il colonnello Gheddafi?
«Mah. Fino all'ultimo ho sperato che uscisse di scena come il tunisino Ben Ali, come Mubarak, con la sua corte e il suo bottino. Ma Gheddafi non è un vigliacco. É un criminale, ma ha una sua corrusca grandezza».
Un personaggio shakespeariano...
«Proprio così. Un uomo di grande intelligenza, colto. Sì, mi spiace che il colonnello abbia spinto la sua avventura umana verso un finale così catastrofico. É in un vicolo cieco. Ma non si arrenderà. Si farà ammazzare».
La sua imbarazzante megalomania, gli occhiali da diva, le amazzoni, il guardaroba che oscurava quello di Michael Jackson finiranno per far dimenticare i meriti dell'uomo.
«Che pure ci sono. La Libia era un'aggregazione di 130 clan. Fu lui a farne una nazione, cacciando gli americani e gli inglesi, e da ultimo gli italiani».
Poi la convinzione di essere appena un gradino sotto il Padreterno lo travolse. Come Saddam Hussein.
Due destini speculari.
«Come il rais di Bagdad, anche Gheddafi sognava di diventare il Califfo, il gran capo di tutti gli arabi. É un sogno che ha coltivato a lungo, finchè nel 2000 si rese conto che non era realizzabile».
Fu allora che si inventò l'Unione Africana.
«Chiamò a raccolta 54 capi di stato e di governo, si fece nominare "re dei re", come il Negus. Certi eccessi, nelle posture e nell'abbigliamento, erano diretti a quel pubblico».
Che vuole il leader rutilante, irraggiungibile, una specie di visione onirica in technicolor.
«Gheddafi pensava a una politica estera, a un'economia, a un esercito in comune. Un criminale, ripeto. Un criminale che negli anni Sessanta e Settanta mandava i suoi sicari in giro per l'Europa a eliminare i suoi nemici. Ma non uno sciocco, creda».
Lei gli ha parlato più volte. Che cosa pensava del suo mitico libro verde, l'Illuminismo in salsa islamica?
«Gli feci la domanda. Mi rispose a bruciapelo. "Onestamente - disse - è stato un fallimento. La Libia è un paese nero, fosco, niente affatto verde"».