Home page

mercoledì 30 marzo 2011

Attività tettoniche: gli esperti mettono in guardia dal "Big One"

(EIR Strategic Alert) - Alcuni esperti impegnati ad indagare i rapporti tra i lampi solari, i movimenti nella galassia e fenomeni terrestri, prevedono l'intensificazione dell'attività tettonica e vulcanica nel prossimo periodo.
Il vicedirettore dell'Istituto di Geografia dell'Accademia delle Scienze Russa, Arkadi Tishkov, ha notato in una recente intervista con la Voice of Russia che il terremoto giapponese potrebbe essere stato provocato dalla Luna e dal Sole. La luna è attualmente a soli 350.000 chilometri di distanza, la più breve da un decennio, mentre l'attività solare è al culmine negli ultimi anni, come indicato da un'esplosione che ha causato una potente tempesta magnetica alla fine di febbraio.
Altri geologi russi sostengono che nuove scosse sotterranee potrebbero essere in vista non solo per il Giappone, ma anche per le aree russe vicine (Sakhalin, Kamchatka, e le isole Kurili).
Dalla Gran Bretagna, l'astrofisico Piers Corbyn riferisce che "l'attività vulcanica e sismica e le variazioni metereologiche determinate dal sole e dalla luna, sono le più estreme da 66 anni a questa parte e molto probabilmente il doppio più ampie di quelle precedenti" e che la West Coast degli Stati Uniti è un'area a rischio.
Stando a Corbyn, è stato il lampo solare di Classe X del 10 marzo 2011 a causare l'impatto sulla terra da parte di una espulsione di materia coronale registrata dalla NASA. Egli ritiene che questo, a sua volta, abbia scatenato il megaterremoto in Giappone il giorno dopo.
Se si verificasse un terremoto sulla costa pacifica degli Stati Uniti, esso colpirebbe la faglia di Sant'Andrea in California e la zona di subduzione della Cascadia, un'area di 965 chilometri, a 80 chilometri dalla costa, che va dalla California settentrionale alla British Columbia.
Per il sismologo dell'Università del Colorado Roger Bilham, il megaterremoto in Giappone è quasi un modello per il sisma di magnitudo 9.0 che gli scienziati prevedono lungo la costa dell'Oregon e dello stato di Washington. Un avvertimento simile è stato lanciato da Robert S. Yeats, un docente di geologia dell'Università Statale dell'Oregon in pensione. Visto che la zona di subduzione della Cascadia è sott'acqua, produrrebbe probabilmente uno tsunami, ha detto.
Contrariamente al Giappone, tuttavia, che ha costruito difese ammirevoli contro i terremoti negli ultimi decenni, i preparativi in Nord America sono molto indietro, e sono stati anche fatti oggetto della mannaia dei tagli alle spese. In effetti, la finanziaria approvata dal Congresso imporrebbe una riduzione del 16% ai fondi per la manutenzione e la gestione dei sistemi di allarme anti-tsunami, per non parlare dei sistemi di rilevamento via satellite per gli uragani, come ha riferito il 17 marzo alla Commissione Scienza e Tecnologia della Camera il ministro del Commercio Gary Locke.
Quanto al Presidente Obama, le sue proposte per ridurre il bilancio prendono di mira i programmi più avanzati della NASA, come l'esplorazione spaziale con equipaggio umano. Un esempio: ha ordinato l'eliminazione del programma di un radar satellitare che avrebbe aumentato la capacità di rilevare e reagire a eruzioni sismiche. Inoltre, Obama è decisamente contrario all'energia di fusione termonucleare.
Nel 2010, stando allo
Statesman Journal dell'Oregon, il Dipartimento di Geologia e Industrie Minerarie ha pubblicato un rapporto sugli effetti di un terremoto nella zona di subduzione della Cascadia in cui si afferma che "in un grosso terremoto, molte delle nostre linee vitali, quali le principali autostrade, i terminali per il rifornimento di carburante, le linee elettriche ed i sistemi di telecomunicazioni non saranno in grado di fornire i servizi previsti".
TIM: la tua mail in mobilità con il BlackBerry®

domenica 27 marzo 2011

Il possibile successore di Gheddafi

(Emergency) - Dopo aver incontrato Sarkozy e la Clinton, Mahmoud Jibril è stato nominato ieri capo del governo provvisorio dei ribelli libiciIl Consiglio nazionale dei ribelli libici ha nominato ieri un
governo di transizione guidato da Mahmoud Jibril, il distinto signore ricevuto con tutti gli onori da Sarkozy all'Eliseo lo scorso 10 marzo e incontratosi pochi giorni dopo con la Clinton. Questo anonimo tecnocrate sessantenne, finora sconosciuto alle cronache, è stato per anni l'uomo chiave di Washington e Londra all'interno del regime del Colonnello Gheddafi. In qualità di direttore dell'Ufficio nazionale per lo sviluppo economico (Nedb) del governo libico, Jibril lavorava per facilitare la penetrazione economica e politica angloamericana in Libia promuovendo un radicale processo di privatizzazione e liberalizzazione dell'economia nazionale. Dopo aver studiato e insegnato per anni 'pianificazione strategica e processi decisionali' nell'università statunitense di Pittsburgh, Jibril ha trascorso la sua vita a predicare il vangelo neoliberista in tutti i paesi arabi, per poi dedicarsi al suo Paese natale alla guida del Nedb, organizzazione governativa creata nel 2007 su impulso di "aziende di consulenza internazionali, prevalentemente americane e britanniche".
Dai cablogrammi inviati a Washington dall'ambasciata Usa a Tripoli emerge il
lavoro di lobbying che Jibril ha svolto negli ultimi quattro anni nel tentativo di convincere il regime di Tripoli - in particolare il figlio del colonnello,
Said al-Islam - ad adottare radicali riforme economiche, a potenziare i rapporti economici con gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna), congelati da decenni, e a formare una nuova classe dirigente filo-occidentale. Un lavoro che all'inizio sembrava promettente, ma che alla fine è stato bloccato da Gheddafi.
Un cablo del novembre 2008 rende conto di come Jibril suggerisca agli Usa di stare attenti alla "crescente competizione" per le risorse petrolifere libiche da parte di Europa, Russia, Cina e India, osservando che nei prossimi anni la Libia diverrà
''più preziosa'' in ragione delle sue riserve petrolifere ancora non sfruttate. Il capo del Nedb invita Washington ad approfittare delle future
privatizzazioni libiche per
investire anche in infrastrutture, sanità e istruzione, e a formare giovani libici nelle università Usa. Non stupisce che, in un successivo cablo di fine 2009, l'ambasciata americana Usa a Tripoli descriva Jibril come
"un interlocutore serio che sa cogliere la prospettiva Usa".
TIM: la tua mail in mobilità con il BlackBerry®

lunedì 21 marzo 2011

L’Italia ha già perso la sua guerra di Libia

Dopo aver celebrato in sordina il Centocinquantenario dell’Unità, il Governo italiano ha scelto d’aggiungere ai festeggiamenti uno strascico molto particolare: una guerra in Libia. Un conflitto che sa tanto di amarcord: la Libia la conquistò Giolitti nel 1911, la “pacificò” Mussolini nel primo dopoguerra, e fu il principale fronte italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa volta, però, le motivazioni sono molto diverse.
Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio: solo uno sprovveduto potrebbe pensare che l’imminente attacco di alcuni paesi della NATO alla Libia sia davvero motivato da preoccupazioni “umanitarie”. Gheddafi, certo, è un dittatore inclemente coi suoi avversari. Ma non è più feroce di molti suoi omologhi dei paesi arabi, alcuni già scalzati dal potere (Ben Alì e Mubarak), altri ancora in sella ed anzi intenti a soffiare sul fuoco della guerra (gli autocrati della Penisola Arabica).
L’asserzione dell’ex vice-ambasciatore libico all’ONU, passato coi ribelli, secondo cui sarebbe in atto un «genocidio», rappresenta un’evidente boutade. È possibile ed anzi probabile che Gheddafi abbia represso le prime manifestazioni contro di lui (come fatto da tutti gli altri governanti arabi), ma l’idea che abbia impiegato bombardamenti aerei (!) per disperdere cortei pacifici è tanto incredibile che quasi sarebbe superflua la smentita dei militari russi (che hanno monitorato gli eventi dai loro satelliti-spia).
Non è stato necessario molto tempo perché dalle proteste pacifiche si passasse all’insurrezione armata, ed a quel punto è divenuto impossibile parlare di “repressione delle manifestazioni”. Anche se i giornalisti occidentali, ancora per alcuni giorni, hanno continuato a chiamare “manifestanti pacifici” gli uomini che stavano prendendo il controllo di città ed intere regioni, e che loro stessi mostravano armati di fucili, artiglieria e carri armati (consegnati da reparti dell’Esercito che hanno defezionato e forse anche da patroni esterni). Da allora Gheddafi ha sicuramente fatto ricorso ad aerei contro i ribelli, ma i pur numerosi giornalisti embedded nelle fila della rivolta non sono riusciti a documentare attacchi sui civili. La stessa storia delle “fosse comuni”, che si pretendeva suffragata da un’unica foto che mostrava quattro o cinque tombe aperte su un riconoscibile cimitero di Tripoli, è stata presto accantonata per la sua scarsa credibilità.
La guerra civile tra i ribelli ed il governo di Tripoli, che prosegue – a quanto ne sappiamo – ben poco feroce, giacché i morti giornalieri si contano sulle dita di una o al massimo due mani, stava volgendo rapidamente a conclusione. Il problema è che a vincere era, agli occhi d’alcuni paesi atlantici, la “parte sbagliata”. La storia – in Krajina, in Kosovo, persino in Iràq – ci ha insegnato che, generalmente, gl’interventi militari esterni fanno più vittime di quelle provocate dai veri o presunti “massacri” che si vorrebbero fermare. In Krajina, ad esempio, i bombardamenti “umanitari” della NATO permisero ai Croati d’espellere un quarto di milione di serbi: una delle più riuscite operazioni di “pulizia etnica” mai praticate in Europa, almeno negli ultimi decenni.
Le motivazioni reali dell’intervento, dunque, sono strategiche e geopolitiche: l’umanitarismo è puro pretesto. In questo sito si può leggere molto sulle reali motivazioni della Francia, degli USA e della Gran Bretagna (vedasi, ad esempio: Intervista a Jacques Borde; Libia: Golpe e Geopolitica di A. Lattanzio; La crisi libica e i suoi sciacalli di S.A. Puttini). Motivazioni, del resto, facilmente immaginabili. Qui ci sofferemo invece sulle scelte prese dal Governo italiano.
Cominciamo dall’inizio. Prima dell’esplodere dell’insurrezione, l’Italia ha un rapporto privilegiato con la Libia. Il nostro paese è innanzi tutto il maggiore socio d’affari della Jamahiriya: primo acquirente delle sue esportazioni e primo fornitore delle sue importazioni. La Libia vende all’Italia quasi il 40% delle sue esportazioni (il secondo maggior acquirente, la Germania, raccoglie il 10%) e riceve dalla nostra nazione il 18,9% delle sue importazioni totali (il secondo maggiore venditore, la Cina, fornisce poco più del 10%). La dipendenza commerciale della Libia dall’Italia è forte, dunque, ma è probabile che il rapporto abbia maggiore valenza strategica per noi che per Tripoli. La Libia possiede infatti le maggiori riserve petrolifere di tutto il continente africano (per giunta petrolio d’ottima qualità), è geograficamente prossimo al nostro paese e dunque si profila naturalmente come fornitore principale, o tra i principali, di risorse energetiche all’Italia. La nostra compagnia statale ENI estrae in Libia il 15% della sua produzione petrolifera totale; tramite il gasdotto Greenstream nel 2010 sono giunti in Italia 9,4 miliardi di metri cubi di gas libico. I contratti dell’ENI in Libia sono validi ancora per 30-40 anni e, malgrado l’atteggiamento italiano che analizzeremo a breve, Tripoli li ha confermati il 17 marzo per bocca del ministro Shukri Ghanem. Attualmente la Libia concede ad imprese italiane tutti gli appalti relativi alla costruzione d’infrastrutture, garantendo così miliardi di commesse che si ripercuotono positivamente sull’occupazione nel nostro paese. Infine la Libia, che grazie alle esportazioni energetiche è un paese relativamente ricco (ha il più elevato reddito pro capite dell’Africa), investe in Italia gran parte dei suoi “petrodollari”: attualmente ha partecipazioni in ENI, FIAT, Unicredit, Finmeccanica ed altre imprese ancora. Un apporto fondamentale di capitali in una congiuntura caratterizzata da carenza di liquidità, dopo la crisi finanziaria del 2008.
Tutto ciò fa della Libia un caso più unico che raro, dal nostro punto di vista, tra i produttori di petrolio nel Mediterraneo e Vicino Oriente. Quasi tutti, infatti, hanno rapporti economici privilegiati con gli USA e con le compagnie energetiche anglosassoni, francesi o asiatiche.
La relazione italo-libica è stata suggellata nel 2009 dal Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, siglato a nome nostro dal presidente Silvio Berlusconi ma derivante da trattative condotte già sotto i governi precedenti, anche di Centro-Sinistra. Tale trattato, oltre a rafforzare la cooperazione in una lunga serie di ambiti, impegnava le parti ad alcuni obblighi reciproci. Tra essi possiamo citare: il rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica» ed il diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2); l’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3); l’astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1); la rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2); l’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).
L’Italia è dunque arrivata all’esplodere della crisi libica come alleata di Tripoli, legata alla Libia dalle clausole – poste nero su bianco – di un trattato, stipulato non cent’anni fa ma nel 2009, e non da un governo passato ma da quello ancora in carica.
L’atteggiamento italiano, nel corso delle ultime settimane, è stato incerto ed imbarazzante. Inizialmente Berlusconi dichiarava di non voler “disturbare” il colonnello Gheddafi (19 febbraio), mentre il suo ministro Frattini agitava lo spettro di un “emirato islamico a Bengasi” (21 febbraio). Ben presto, però, l’insurrezione sembrava travolgere le autorità della Jamahiriya e l’atteggiamento italiano mutava: Frattini inaugurava la corsa al rialzo delle presunte vittime dello scontro, annunciando 1000 morti (23 febbraio) mentre Human Rights Watch ancora ne conteggiava poche centinaia; il ministro della Difesa La Russa (non si sa in base a quali competenze specifiche) annunciava la sospensione del Trattato di Amicizia italo-libica, sospensione per giunta illegale (27 febbraio). Gheddafi riesce però a ribaltare la situazione e parte alla riconquista del territorio caduto in mano agl’insorti. Man mano che le truppe libiche avanzano, il bellicismo in Italia sembra spegnersi: il ministro Maroni arriva ad invitare gli USA a «darsi una calmata» (6 marzo). Ma la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 17 marzo, che dà il via libera agli attacchi atlantisti sulla Libia, provoca una brusca virata della diplomazia italiana: il nostro governo mette subito a disposizione basi militari ed aerei per bombardare l’ormai ex “amico” e “partner”.
È fin troppo evidente come il Governo italiano abbia, in questa vicenda, manifestato un atteggiamento poco chiaro e molto indeciso; semmai, s’è palesata una spiccata propensione ad ondeggiare a seconda degli eventi, cercando di volta in volta di schierarsi col probabile vincitore. Come già in altre occasioni recenti di politica estera, il Capo del Governo è parso assente, lasciando che suoi ministri dettassero o quanto meno comunicassero alla nazione la linea dell’Italia. L’ambivalenza ha scontentato sia il governo libico, che s’aspettava una posizione amichevole da parte di Roma, sia i ribelli cirenaici, che hanno ricevuto sostegno concreto dalla Francia e dalla Gran Bretagna ma non certo dall’Italia. Infine, il Trattato di Amicizia, siglato appena due anni fa, è stato stracciato e Berlusconi si prepara, seppur sotto l’égida dell’ONU, a scendere in guerra contro la Libia.
Qualsiasi sarà l’esito dello scontro, l’Italia ha già perduto la sua campagna di Libia. I nostri governanti, memori della peggiore specialità nazionale, hanno celebrato il Centocinquantenario dell’Unità con un plateale voltafaccia ai danni della Libia: una riedizione tragicomica del dramma dell’8 settembre 1943. Questa volta non sarà l’Italia stessa, ma l’ex “amica” Libia, ad essere consegnata ad una guerra civile lunga e dolorosa, che senza ingerenze esterne si sarebbe conclusa entro pochi giorni.
Ma non si sta perdendo solo la faccia e l’onore. Le forniture petrolifere e le commesse, comunque finirà lo scontro, molto probabilmente passeranno dalle mani italiane a quelle d’altri paesi: se non tutte, in buona parte. Se vincerà Gheddafi finiranno ai Cinesi o agl’Indiani; se vinceranno gl’insorti ai Francesi ed ai Britannici; in caso di stallo e guerra civile permanente in Libia resterà poco da raccogliere. Se non ondate d’immigrati ed influssi destabilizzanti per tutta la regione.

domenica 20 marzo 2011

Zbigniew Jaworowski su Fukushima: Sul robusto settore nucleare giapponese.

(MoviSol) - 15 marzo 2011 - Il Giappone, affacciato sul cosiddetto "Cerchio di fuoco" dell'Oceano Pacifico, è una della nazioni più instabili dal punto di vista sismico. Nel XX secolo, a causa di nove terremoti complessivi di intensità non inferiore ai 6 gradi della scala Richter, morirono circa 158.280 giapponesi. Questa realtà era nella mente dei progettisti e dei costruttori dei 55 reattori destinati ai 17 impianti di potenza, che riforniscono di corrente elettrica la nazione, coprendo il 34,5 % del suo fabbisogno di elettricità. Li costruirono sufficientemente robusti da non rilasciare alcuna radioattività nociva oltre i livelli consentiti, anche nel peggiore terremoto della storia. Il sisma dell'11 marzo 2011, di magnitudo 9.0, il più grave della storia giapponese, ha dimostrato che gli impianti hanno retto come previsto. Nessuna radioattività pericolosa è fuoriuscita dagli edifici distrutti di Fukushima, e nessuno del pubblico è stato gravemente colpito dalle radiazioni. Anche se gli impianti nucleari hanno resistito alle scosse del sisma, sembra che, tuttavia, non abbiano retto all'enorme ondata dello tsunami, che ha coperto una fascia di terraferma larga 10 km, allagando anche i motori diesel dei generatori di servizio degli impianti. Il risultato è il surriscaldamento dei noccioli dei reattori.
Nelle città più colpite, quelle di Miyagi, di Fukushima e di Ibaraki, sono collocati 11 reattori nucleari. Quelli che erano in funzione durante il terremoto sono stati spenti automaticamente e le équipe di tecnici e lavoratori hanno cominciato ad eseguire le procedure prestabilite di dissipazione del "calore residuo", cioè ad iniettare acqua nei vasi in pressione dei reattori. Dopo un'ora, però, i generatori di emergenza di Fukushima Daiichi sono stati distrutti dallo tsunami; il sistema di raffreddamento ad alta pressione è andato perduto e, prima dell'aggiunta di generatori mobili aggiuntivi, la temperatura del nocciolo della Unità 1 è cresciuta al punto in cui il rivestimento allo zirconio delle barre di fissile hanno reagito con l'acqua, producendo idrogeno.
Quando il 12 marzo è stato rilasciato del gas del vaso in pressione, esternamente al primo contenitore si è avuta un'esplosione dell'idrogeno, lasciando intatto il vaso di contenimento. Questa situazione tecnicamente aggravata ha portato al ferimento di alcune persone, senza tuttavia portare ad un rilascio di radioattività nell'ambiente. Dopo l'esplosione, inizialmente i livelli di Cesio 137 e di Iodio 131 sono cresciuti, ma sono scesi nel giro di poche ore. Il 14 marzo si è reso necessario ripetere le suddette operazioni, a causa di un esplosione attorno al reattore dell'Unità 3 dell'impianto Daiichi di Fukushima. Anche in questo caso, è saltato per aria il tetto dell'edificio, senza che si danneggiasse il vaso di contenimento e la radioattività fosse rilasciata dal materiale fissile.
Le autorità hanno assunto la decisione di condurre due misure precauzionali. Una è stata l'evacuazione di circa 200.000 residenti nelle dieci città vicino allo stabilimento danneggiato. L'altra è stata la distribuzione di 230.000 pastiglie di iodio presso i centri di evacuazione dalle aree attorno agli impianti di Fukushima Daiichi e Fukushima Daini. Lo iodio non è ancora stato somministrato alla popolazione, ma non è da considerarsi misura necessaria.
Si può immaginare che cosa accadrebbe se fondessero i noccioli delle due centrali di Fukushima Daiichi e Fukushima Daini. Sappiamo quel che accadde al reattore di Three Mile Island nel 1979 e al reattore di Cernobil durante la catastrofe del 1986. In Giappone si avrebbe un esito simile a quello di Three Mile Island: allore le spesse pareti di contenimento in calcestruzzo protessero il reattore e impedirono la fuoriuscita dei prodotti della fissione. Quasi nulle furono le emissioni di radionuclidi in atmosfera; vi furono delle fughe di un gas nobile radioattivo innocuo; quasi nulla fu l'esposizione della popolazione. Non vi sono affatto possibilità che si ripeta la storia di Cernobil, poiché quel reattore non era collocato entro un vaso di contenimento, e per dieci giorni la radioattività fu libera di abbandonare il reattore fuso a causa della combustione della grafite usata per la sua costruzione. Anche se per disgrazia i vasi di contenimento delle centrali giapponesi fossero danneggiati da un altro terremoto o da un altro tsunami, i residenti nelle vicinanze non sarebbero colpiti dalle radiazioni. Questo è ciò che abbiamo appreso dal disastro di Cernobil, a causa del quale nessun individuo della popolazione residente nelle vicinanze morì, in quanto – come attesta un recente rapporto del Comitato Scientifico sugli Effetti della Radiazione Atomica dell'ONU (vedi l'Appendice D, "Effetti sulla salute dovuti alla radiazione del disastro di Cernobil", pagg. 1-173 del volume II del rapporto UNSCEAR 2011 "Fonti e Effetti della Radiazione Ionizzante") – le dosi di radiazione ricevute in ricaduta dall'alto (fallout), stimate in circa 1mSv all'anno, furono inferiori a quelle della radiazione naturale, troppo piccole per produrre qualche effetto.
Zbigniew Jaworowski è uno scienziato multidisciplinare che ha all'attivo più di trecento articoli scientifici, quattro libri e decine di articoli di divulgazione scientifica. È stato un membro del Comitato Scientifico sugli Effetti della Radiazione Atomica delle Nazioni Unite (UNSCEAR) sin dal 1973: nel biennio 1980-1982 ne fu presidente. Interessante è il suo recente articolo dal titolo "Osservazioni su Cernobil dopo 25 anni di radiofobia", disponibile in lingua inglese a questa pagina. Un suo articolo tradotto in italiano è disponibile su questo sito con il titolo "Un encomio della Bielorussia per la decisione di ripopolare la zona evacuata intorno al reattore di Chernobyl".

giovedì 10 marzo 2011

L'Unione Europea alza la mannaia contro i salari e i diritti sindacali

(EIR) - Mentre le istituzioni dell'Unione Europea sono corresponsabili dell'aumento dei prezzi delle materie prime con la loro politica dei salvataggi bancari, esse chiedono ai governi di congelare i salari. Questa folle politica è stata ribadita dal presidente della Banca Centrale Europea Trichet che ha dichiarato, alla conferenza stampa mensile della BCE, che "non si può fare niente" contro la speculazione sulle materie prime, insistendo che i governi devono evitare effetti di "rimbalzo" come gli aumentali salariali.
Ad una domanda dell'EIR sull'aumento del prezzo del cibo come causa delle rivolte in Nord Africa, Trichet ha ammesso che la BCE avrebbe il potere di intervenire contro la speculazione, ad esempio riducendo il flusso di liquidità, ma si è rifiutato di prendere in considerazione alcun intervento. Si è lamentato invece del "patto competitivo" proposto da Francia e Germania che ridurrebbe il potere di "governance" della Commissione UE, chiedendo al Parlamento Europeo di cambiarlo.
In netto contrasto con Trichet, il ministro dell'Economia Tremonti, durante un incontro dell'Aspen Institute a Istanbul il 4 marzo, ha ribadito il suo punto di vista che l'innesco delle varie rivolte in Nord Africa è proprio l'aumento dei prezzi delle commodities. Ha ricordato di aver sollevato la questione al G8 del 2008, e "la risposta scientifica, specie del Fondo Monetario Internazionale, fu che la speculazione non esiste". Secondo Tremonti, l'ondata di rivolte potrebbe estendersi ad est e colpire anche i paesi sviluppati, dove si teme già lo shock petrolifero.
"In Italia abbiamo l'espressione caro-vita" ha detto Tremonti. "In Africa, in tutte le regioni povere, è una questione non di caro-vita ma di vita, e la speculazione sta distruggendo la vita dei popoli, con incrementi del 30 o 40% in pochi mesi che hanno una causa speculativa e un effetto mortale". La "reazione contro un eccesso di ingiustizia" arriverà anche in Asia, ha ammonite, "e questo può portare a problemi economici e instabilità, mentre noi dobbiamo operare per la stabilità. E può portare a problemi democratici in Europa, ho detto che c'è il rischio dell'estrema destra".
A quanto pare le istituzioni dell'UE si stanno dando da fare perché ciò accada. Su richiesta di Trichet, la Commissione Europea presenterà, al vertice dell'11 marzo dei capi di governo dell'Eurozona un piano stilato dagli assistenti del Commissario Europeo José Manuel Barroso e del presidente del Consiglio Europeo Herman van Rompuy. Oltre metà del loro documento punta a tagliare i salari, smantellare i diritti sindacali e tagliare le pensioni.
Sotto l'egida del "promuovere la competitività" il documento chiede di mettere fine di fatto ai diritti sindacali esigendo una "revisione degli accordi sindacali per aumentare la decentralizzazione nel processo di negoziato e per migliorare il meccanismo di indicizzazione" assicurando al contempo "limiti salariali nel settore pubblico".
Sempre inneggiando all'aumento della "produttività" il documento chiede che vengano "rimosse restrizioni ingiustificate delle professioni come quote o numeri chiusi". Sotto l'egida del "promuovere l'occupazione" chiede "riforme del mercato del lavoro che promuovano la flessibilità", ovvero eliminare la sicurezza del posto di lavoro. E sotto la "sostenibilità delle pensioni e della previdenza sociale" chiede l'aumento dell'età pensionabile e la "riduzione del prepensionamento e usare incentivi mirati per assumere lavoratori più anziani e promuovere l'apprendimento in età avanzata".

lunedì 7 marzo 2011

Per la Fed del Kansas la situazione e' peggiore del pre-Obama

(Eir - Strategic Alert) - Il comitato politico di LaRouche (LPAC) sta intervenendo con efficacia nel fermento da sciopero di massa negli USA sollecitando tutti gli attori a guardare "il quadro più ampio" e chiedendo una riorganizzazione completa del sistema bancario e la creazione di un sistema creditizio per far ripartire l'economia. In questa campagna, il rapporto della FCIC si dimostra di grande validità.
In un'intervista alla radio
WNYC il 25 febbraio, lo stesso Angelides si è impegnato a continuare la battaglia. È significativo che egli abbia non solo sollevato la questione del Glass-Steagall Act, ma anche del principio alla base di esso: la distinzione tra gli investimenti di capitale produttivi e improduttivi, o quella che egli ha chiamato "l'economia di carta".
Quando gli hanno chiesto che cosa risponde alle critiche dei repubblicani secondo cui la crisi è stata provocata dal semplice eccesso di liquidità, Angelides ha fatto osservare che una grande quantità di capitale non conduce necessariamente ad una crisi. "La presenza di capitale a buon prezzo, grande quantità di capitale disponibile, non deve per forza essere un disastro. quel denaro, invece di essere incanalato in ipoteche che erano completamente tossiche, avrebbe potuto essere incanalato nella produzione di posti di lavoro, imprese, ricchezza per la società nel suo insieme. Insomma, capitale a disposizione in gran quantità può essere una cosa buona".
Per spiegare gli effetti dell'abolizione di Glass-Steagall, Angelides ha citato "il classico esempio di una banca che si è messa nei guai con le cartolarizzazioni", e cioè Citigroup. "Alla fine della giornata, Citigroup aveva accumulato un'esposizione di 55 miliardi di dollari alle cartolarizzazioni immobiliari subprime, e ha subìto decine di miliardi di perdite; se ci fosse stato Glass-Steagall, o qualche tipo di separazione, quell'istituto bancario non sarebbe stato in pericolo".
Angelides è anche intervenuto costruttivamente sulla tremenda crisi finanziaria degli stati. L'ha chiamata "una riscrittura della storia da parte di Wall Street e della destra" che scarica la crisi sui lavoratori e sui servizi essenziali dello stato. Ha indicato che la vera disoccupazione in California è di circa il 17% e ha dichiarato: "Questo è stato causato dalla crisi finanziaria, non dagli insegnanti".
Anche il presidente della Federal Reserve di Kansas City, Thomas Hoenig, continua la sua opposizione alla politica del suo "boss", Ben Bernanke. In un discorso a Washington il 23 febbraio, egli ha chiesto di scorporare gli istituti finanziari "too big to fail", in modo da poter avviare procedure fallimentari se necessario. Secondo Hoenig, "non si dovrebbe permettere agli organismi che operano al riparo della protezione dello stato di svolgere attività ad alto rischio".
Smontando la propaganda di Obama, Barney Frank e altri, egli ha anche affermato che l'attuale condizione finanziaria "è anche peggio che prima della crisi. Per quanto piena di buone intenzioni, la riforma finanziaria [di Obama] non migliorerà l'effetto".

domenica 6 marzo 2011

Proteste dall'India agli Stati Uniti: il sistema è un Dead Man Walking

(MoviSol) - Nel corso dell'intervista settimanale sulla TV di LPAC, Lyndon LaRouche ha sottolineato che l'attuale sistema monetario e finanziario "è ormai un 'Dead Man Walking', un condannato a morte. Cammina, ma è morto. E non c'è alcuna condizione a cui il sistema attuale di governo, in tutto il mondo, possa continuare ad esistere nella forma attuale. È già defunto". E quei leader che continuano a difenderlo si ritroveranno presto disarcionati.
L'intera regione transatlantica è in uno stato di bancarotta senza speranza, ha proseguito LaRouche, includendo enfaticamente anche il sistema dell'Euro. Non c'è modo che il debito, rappresentato dai salvataggi bancari ed altre cose simili in Europa e altrove, possa mai essere ripagato. Per questo motivo abbiamo bisogno di una riforma Glass-Steagall globale, che distingua tra il debito legittimo e quello speculativo, il che significherebbe la fine di Wall Street. Non c'è alcuna speranza di ripresa, ovunque "sotto questo Presidente degli Stati Uniti, e sotto questo sistema britannico". Con Obama alla Casa Bianca, non c'è speranza di sopravvivenza per gli Stati Uniti, e se saltano gli Stati Uniti, salta anche tutto il sistema occidentale.
"Abbiamo a che fare con un mondo dominato dalla follia di massa, e i folli sono alla guida delle istituzioni" ha dichiarato LaRouche. Ciò a cui assistiamo in Egitto, Libia, Bahrein, Tunisia, ed anche nel Wisconsin, è la disintegrazione dell'intero sistema, con una reazione a catena e i governi che cadono uno dopo l'altro.
Altrove, LaRouche ha sottolineato che Gheddafi ed il governatore del Wisconsin Walker sono espressioni della stessa crisi da collasso transatlantica. Mentre ovunque la gente è pronta a lottare, la mancanza di leadership da parte di coloro che dovrebbero fungere da guida in questa situazione "sta portando la situazione verso un processo simile alla Rivoluzione Francese" pregno di pericoli.
Dopo la sua dichiarazione iniziale su LPAC-TV LaRouche è stato interpellato sulla psicologia di massa delle rivolte che stanno scoppiando in tutto il pianeta. In risposta, egli ha esordito paragonando la reazione della popolazione "al divorzio più duro che si possa immaginare, in cui la gente dice al proprio padrone, che è il sistema attuale: 'Non ti amiamo più. Anzi, ti odiamo'. E questa è una reazione sana, molto sana", ma non basta.
Le proteste in Egitto, in Libia contro Gheddafi, in Wisconsin e in tutti gli Stati Uniti, indicano che "il sistema sta crollando, e la sposa (il popolo) sta lasciando lo sposo".
La questione ora, ha sottolineato LaRouche, è la necessità di una leadership positiva "che sia un'alternativa a tutto ciò che rappresentano Obama e Wall Street. Dobbiamo prendere l'odio della gente, che sta dilagando in tutto il mondo, in tutta l'Europa e in tutti gli Stati Uniti, in particolare, e trasformare quest'odio in qualcosa di costruttivo. La passione è giustificata. La passione che ora si esprime in odio, un odio crescente, nei confronti di questa amministrazione, e di questo Presidente e tutto quello che essi comportano: è giustificato nel senso che è stato provocato. Ma dobbiamo passare dall'odio a qualcosa di costruttivo".
Per gli Stati Uniti, LaRouche ha dato l'esempio della vittoria repubblicana alle ultime elezioni in novembre, basata sull'odio della popolazione nei confronti della politica di Obama, in particolare la riforma sanitaria, e nei confronti del Partito Democratico che ha capitolato alla Casa Bianca. Ma limitando la loro reazione ad un voto di protesta, gli americani hanno ottenuto qualcosa di pessimo tanto quanto Obama, e cioè gli ultraconservatori come il governatore Walker ("il Baltassar del Wisconsin"). "L'odio che evoca è pericoloso se rimane solo odio".
Sappiamo quali misure prendere, ha sottolineato LaRouche, con una riforma Glass-Steagall, il rifiuto di una politica sanitaria basata sul razionamento e l'efficienza dei costi, come quella di Obama, e grandi progetti come NAWAPA. Dobbiamo semplicemente attuarle. "Possiamo avere un secolo di sviluppo, con queste misure. Ma dobbiamo abbandonare il fattore dell'odio, il fattore negativo. Dobbiamo passare al fattore costruttivo".

In Spagna la crisi fa resuscitare la peseta. Per ora solo a Mugardos, in Galizia

Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che perde ma non sa quel che trova, avverte il proverbio. È proprio su questa falsariga che Mugardos, una cittadina galiziana sulla costa nord della Spagna, quasi 6mila anime, ha pensato che, per rilanciare un'economia locale un po' troppo poco dinamica, la soluzione per uscire dal tunnel fosse quella di guardarsi indietro.
Altro che euro: da quelle parti è stata resuscitata la cara, «vecchia» peseta. Oltre 60 esercizi commerciali hanno deciso di tornare ad accettare la vecchia valuta - oltre all'euro, naturalmente - invitando così tutti coloro che avessero ancora a disposizione le vecchie banconote, dismesse nove anni fa e sostituite dalla moneta unica europea, a tirarle fuori dal cassetto e spenderle. Come dire: in questa fase di crisi non c'è da fare gli schizzinosi, accettiamo tutto, non vi preoccupate.
Nonostante l'iniziale scetticismo, l'idea sembra funzionare, riferisce la Bbc online. La recessione aguzza l'ingegno, dunque. Da tempo la cittadina galiziana è travolta da una profonda crisi che tocca l'intera regione: migliaia di saracinesche di negozi abbassate, due milioni di posti di lavoro andati in fumo. Il proprietario di un negozio di ferramenta e piccoli elettrodomestici racconta che poco tempo fa si era presentato nel suo locale un uomo con una vecchia banconota da 10mila pesetas che aveva trovato in casa. Non sapeva come impiegare la valuta che - pensava - era caduta in disuso. Poco dopo era diventato il «felice proprietario» di un tostapane nuovo di zecca. Anche le valute ritornano. Prima o poi.

martedì 1 marzo 2011

L'UE minaccia l'Italia sulla Golden Share: il liberismo madre delle repubbliche delle banane

(MoviSol) - È di una settimana fa circa la notizia che il Commissario europeo al mercato interno Michel Barnier è tornato alla carica contro ogni intervento statale - anche solo teorico – nell'economia italiana. Per conto dell'Unione Europea il commissario ha intimato all'Italia di modificare la disciplina sulla Golden Share, l'azione d'oro detenuta dallo Stato in gruppi strategici come Eni, Finmeccanica, Enel e Telecom Italia. Secondo Barnier i poteri spettanti al Governo italiano sono "eccessivi", "vaghi e indeterminati"; conferirebbero alle autorità "ampi poteri discrezionali nel giudicare i rischi per gli interessi vitali dello Stato", tutto in contrasto con le regole comunitarie sulla libera concorrenza.
Ora, che l'Unione Europea sia contro ogni intervento statale in economia non dovrebbe sorprendere nessuno, ma la rinnovata aggressività verso l'Italia in questo momento di crisi economica e scompiglio politico potrà forse aiutare ad aprire gli occhi a chi crede ancora che i principii del liberismo siano compatibili con il benessere economico delle nazioni. Ma torniamo un poco indietro per inquadrare meglio la situazione. La svolta verso la distruzione dell'assetto produttivo delle economie europee - spesso identificato come il "modello renano" negli anni Novanta - avvenne a ridosso di un periodo di grande sconvolgimento politico in Europa, iniziato con il crollo del muro di Berlino nel 1989.
A quel tempo la Germania era pronta a guidare un processo di sviluppo economico vero non solo per i nuovi Länder, ma anche per la Polonia, e implicitamente, per tutta l'Europa dell'Est. La capacità produttiva del cuore dell'Europa sarebbe state utilizzata in senso dirigistico, per sollevare i popoli oppressi per decenni dal sistema sovietico. Il movimento di Lyndon LaRouche si attivò subito con una campagna a favore di un'alleanza per lo sviluppo non solo dell'Europa stessa, ma anche dell'Asia attraverso il noto progetto del Ponte eurasiatico di sviluppo. Le nazioni del continente europeo avrebbero guidato una nuova epoca di cooperazione e di progresso, cambiando la direzione della storia attuale.
Gli interessi oligarchici non sono stati a guardare. Da Londra, sede storica della geopolitica imperiale, partì la campagna contro la Germania accusandola di diventare il Quarto Reich; l'uomo chiave in Germania per il finanziamento del progetto, Alfred Herrhausen, fu assassinato da un gruppo terroristico di dubbia esistenza; scoppiò la guerra nei Balcani, destabilizzando l'Europa centrale proprio come successe ai tempi della Prima Guerra Mondiale; e l'obiettivo di una maggiore cooperazione europea divenne un pretesto per imporre il trattato di Maastricht e la moneta unica, annullando la sovranità economica dei paesi membri. E non si pensi a qualche oscura teoria complottistica; fu Helmut Kohl stesso nelle sue memorie ad affermare con forza che Margaret Thatcher e Francois Mitterrand, con l'appoggio di George H.W. Bush, pretesero che la Germania si impegnasse ad entrare nell'Euro in cambio della via libera alla riunificazione tedesca.
Non a caso, anche l'Italia visse un momento di grande destabilizzazione, una trasformazione politica che inaugurò la stagione di "modernizzazione" e portò dritto alla crisi economica e finanziaria di oggi. Tangentopoli fu usata per fare fuori un'intera classe politica, con moltissime pecche senz'altro, ma a volte disposta ad opporsi ai diktat della finanza internazionale. Inoltre, il sistema delle partecipazioni statali rappresentava una struttura in grado di garantire il carattere industriale del Paese internamente e anche a livello internazionale, nonostante il declino già in atto fin dagli anni Settanta.
A partire dai governi tecnici guidati da Amato e Ciampi non solo ci fu un "rinnovamento" della classe politica, ma furono riscritte le regole dell'economia, dalle banche alle pensioni, dalle grandi imprese ai servizi locali. La stagione delle privatizzazioni portò alla svendita di numerose aziende statali, nel nome dell'efficienza e della necessità di abbattere il debito pubblico. Come abbiamo già documentato, questo processo in realtà non portò a dei risparmi per lo Stato; in molti casi rappresentò una perdita vera e propria, e soprattutto, aprì i settori strategici dell'economia a certi interessi privati nazionali e internazionali che hanno a cuore tutt'altro che il Bene Comune.
Così torniamo alla Golden Share. Le grandi aziende dello Stato sono ora private, ma in alcune di esse il Tesoro mantiene un potere di veto sulle decisioni strategiche. Dal punto di vista del sistema finanziario ed economico internazionale di oggi, tale potere è chiaramente un'anomalia; se si crede nel "libero mercato" lo Stato non deve avere alcun ruolo di indirizzo delle imprese, finirebbe solo per distorcere la libera concorrenza. Se invece guardiamo il mondo dal punto di vista strategico indicato in modo pur sommario sopra, la possibilità per l'Italia - e per ogni nazione che vuole sopravvivere in questo tempo di crisi - di difendersi dalla distruzione o dalla svendita dei settori fondamentali della propria economia, è essenziale. Tanto più nel momento in cui i dogmi economici degli ultimi decenni sono appena stati smentiti in modo spettacolare. L'efficienza del mercato ha portato ad una serie di bolle speculative la cui implosione ha inaugurato una crisi senza fine. Il mercato ha allocato i capitali in modo così perfetto che ora i cittadini subiscono l'austerità e la crisi per garantire lunga vita ai centri speculativi transnazionali.
Il fatto che il liberismo sia sancito nel Trattato di Lisbona non toglie il fallimento di quel sistema. Finché rimane qualche briciola di sovranità sarebbe il caso di tenersela; il mondo sta cambiando rapidamente, e gli Stati serviranno proprio per costruire un futuro per le popolazioni che ora non sono più disposte a patire la fame e la riduzione dei loro diritti nel nome della globalizzazione.